30 anni fa la mafia uccideva i giudici Falcone e Borsellino

Coraggio, lealtà e legalità. Valori che devono restare vivi

di Erminia Fabrizi

Foto: fonte Rai.it
Dall’inizio alla fine delle loro vite, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati legati a un doppio filo invisibile. I giudici martiri, come li definì Papa Giovanni Paolo II, uccisi trent’anni fa negli attentati di Cosa Nostra. Il loro esempio, fatto di valori, dedizione, azioni concrete e sacrificio, resta scolpito nella coscienza collettiva. Ha ricordato la ministra italiana dell’Interno, Luciana Lamorgese: “Da quegli attentati del 92 sono nate le nuove norme antimafia. All’inaudita violenza si rispose con misure mai viste e, giorno dopo giorno, grazie al nuovo slancio delle coscienze e agli importanti provvedimenti adottati dal Parlamento abbiamo ottenuto risultati straordinari. La legislazione ha messo in campo strumenti sempre più efficaci che sono nati dall’esperienza e dalle intuizioni di Falcone e Borsellino”.

Falcone e Borsellino sono nati a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. Il primo a maggio 1939, il secondo a gennaio del 1940. Entrambi palermitani, trascorsero l’infanzia nella stessa Kalsa, popolare quartiere nel capoluogo siciliano. E, diventati adulti, tutti e due trovarono posto nel Pool antimafia messo in piedi dal giudice Antonino Caponnetto, che sostituì il collega Rocco Chinnici, caduto vittima di un agguato ordito dalla stessa organizzazione criminale. Con Falcone e Borsellino c’erano anche i magistrati Giuseppe di Lello e Leonardo Guarnotta. Un momento storico, che fece comprendere definitivamente anche alle istituzioni e all’opinione pubblica che la lotta a “Cosa Nostra” era un’emergenza sempre più grave e andava affrontata a viso aperto, con tutto quello che avrebbe comportato. Oltre alle battaglie nei tribunali, i magistrati del team volevano sensibilizzare la gente comune e scuotere le coscienze dei giovani. Per aprire una breccia nel muro dell’omertà, parafrasando una dichiarazione dello stesso Falcone, lui e Borsellino erano convinti che i pentiti avessero un ruolo determinante. Li incontrarono, registrarono le loro testimonianze, cercarono riscontri in modo tale che ogni fatto potesse essere provato. Cominciarono a partecipare attivamente a dibattiti nelle scuole, a feste di piazza, a tavole rotonde per abbattere una volta per tutte i cardini della cultura mafiosa. L’educazione alla legalità rientrava nella loro missione. Il risultato dell’attività della squadra, che poté avvalersi del contributo decisivo i collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, fu nel 1986 il Maxi-processo di Palermo, concepito sulla base di un’ordinanza di ben 8.000 pagine che rinviava a giudizio 476 indagati. La conclusione avvenne l’anno seguente: 342 condanne, di cui 19 ergastoli. Un primo duro colpo veniva sferrato contro la mafia, e ripreso dalle telecamere televisive, che per la prima volta immortalarono l’immagine degli “uomini d’onore” messi alla sbarra. Ma il ritiro di Antonino Caponnetto, per motivi di salute, e la decisione del Consiglio Superiore della Magistratura di non affidarne la guida a Giovanni Falcone – una scelta che sorprese e indignò molti – condussero allo scioglimento del Pool Antimafia. Falcone fu chiamato a Roma per assumere la Direzione degli Affari Penali. Borsellino, dopo una parentesi lavorativa a Marsala, rientrò a Palermo con l’incarico di Procuratore aggiunto.

Le stragi di maggio e luglio 1992

Nella primavera 1992 Falcone raggiunse finalmente i numeri necessari per l’elezione a superprocuratore. Ma il 23 maggio 1992, a Capaci, lungo l’autostrada che da Trapani portava a Palermo, una carica di cinque quintali di tritolo uccise il giudice, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. A due mesi dal quel terribile attentato che sconvolse l’intero Paese e si impresse per sempre nella memoria collettiva, il 19 luglio 1992 si ripeté quel tragico copione a Palermo. Alle 7 di mattina di quel giorno il procuratore Giammanco comunicò telefonicamente a Borsellino che avrebbe avuto la delega per indagare sulla morte del collega e amico fraterno Giovanni. Lo stesso giorno il giudice andò nella casa del mare, a Villagrazia, con la scorta. Pranzò coi familiari e dopo fece ritorno nel capoluogo siciliano per accompagnare la mamma dal medico. Una volta che il magistrato e la scorta giunsero davanti all’abitazione della madre, in via D’Amelio, saltò in aria un’auto carica di tritolo. Insieme al giudice morirono gli agenti Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela. Loi e Claudio Traina. Da un’intervista rilasciata tempo dopo da Caponnetto al giornalista Gianni Minà emerse che dieci giorni prima Borsellino aveva fatto domanda affinché i veicoli circostanti l’ingresso della palazzina dove risiedeva la madre fossero rimossi. Ma la richiesta rimase inevasa. Dopo l’attentato di Capaci, inoltre, Borsellino era andato a far visita in ospedale a Giuseppe Costanza, autista di Giovanni Falcone, unico sopravvissuto alla strage (il giorno dell’attentato sul tratto autostradale da Trapani a Palermo volle mettersi alla guida della vettura lo stesso Falcone, mentre Costanza si sedette dietro). Ha ricordato l’uomo, in tempi recenti: “[Borsellino] ha preso degli appunti sulla sua agenda. Il 19 luglio purtroppo hanno fatto saltare in aria anche lui, e la sua agenda è sparita. Non si doveva abbandonarlo, non si doveva permettere che avvenisse un’altra strage, lo sapevamo tutti”. Ha ricordato Costanza in un incontro pubblico: “Il silenzio è mafia, quando vedete qualcosa che non va denunciate”. Prima ancora della morte di Falcone, Borsellino aveva denunciato, in diverse occasioni e a mezzo stampa, l’impressione di isolamento percepita dai giudici e il crescente scollamento nei rapporti tra essi e lo Stato.

Il ricordo di Maria Falcone

A distanza di trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, Maria Falcone ricorda il fratello Giovanni raccontandolo e raccontandosi in un libro scritto a quattro mani con la giornalista dell’Agenzia Ansa Lara Sirignano, specializzata in cronaca giudiziaria (‘L’eredità di un giudice’, Mondadori). Maria Falcone, presidente della Fondazione Giovanni Falcone con la quale collabora dal 2018 Sirignano, ripercorre quei terribili giorni, la voglia di reagire, l’instancabile impegno e l’attivismo per promuovere una cultura della legalità. E riflette sulle evoluzioni, da allora, della lotta alla mafia e della Penisola. Dopo Capaci qualcosa cambiò per sempre, in Italia. Istituzioni e cittadini non potevano più rimanere indifferenti. E così la rabbia di molti divenne legittima pretesa di giustizia, il lutto necessità di testimonianza. Cominciò quella metamorfosi culturale, morale e delle coscienze che Giovanni Falcone riteneva indispensabile per poter combattere la mafia su larga scala. E, in parallelo, iniziò un viaggio per la sorella del giudice, una donna che ha scelto di tramutare il proprio dolore privato in testimonianza universale. Dalla morte del fratello, infatti, Maria Falcone non ha smesso di dedicare la sua vita all’affermazione dei valori della legalità e dell’antimafia nella società, e in particolare tra i giovani.

Il coraggio e la solitudine
In libreria è arrivato anche ‘Solo è il coraggio. Giovanni Falcone, il romanzo’ (Bompiani) di Roberto Saviano, giornalista e scrittore al quale è stata assegnata la scorta per motivi di sicurezza, dopo i suoi articoli e i suoi libri di denuncia contro la criminalità organizzata. Come si legge nella sinossi, Saviano “ha voluto onorare la memoria del giudice palermitano strappandolo alla fissità dell’icona e ripercorrendone i passi, senza limitarsi a una ricostruzione fondata su uno studio attentissimo delle fonti, degli atti dei processi, delle testimonianze, ma spingendo la narrazione fino a quello ‘spazio intimo dove le scelte cruciali maturano prima di accadere’”. È la storia di un magistrato che insieme a pochi altri intuisce la complessità di un’organizzazione criminale pervasiva, ne segue le piste finanziarie, ne penetra la psicologia e ne scardina la proverbiale omertà, narrata con l’essenzialità di un dramma antico: sul proscenio, un uomo determinato a ottenere giustizia, assediato dai presagi più cupi, circondato dal coro dei colleghi che prima di lui sono caduti sotto il fuoco mafioso; stretto, nelle notti più buie, dall’abbraccio di una donna che ha scelto di seguirlo fino a dove il fato si compirà. Diceva Falcone: “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza”.

Amicizie eterne

Saviano firma anche la prefazione del nuovo libro nuovo libro di Pietro Grasso, scritto a quattro mani con Alessio Pasquini, ‘Il mio amico Giovanni’ (Up Feltrinelli). “Ci sono storie che non finiscono, ci sono storie che non possono finire perché troppo importante è il percorso, e fondamentale è lo scopo. Il mio amico Giovanni racconta una storia che non può finire perché è prima di tutto la storia di una amicizia. Ma è anche la storia di un rapporto professionale fatto di condivisione: tempo e spazi, studio intenso, paure grandissime, gioie immense, piccoli passi avanti e cocenti frustrazioni. Il libro che avete tra le mani è assai prezioso perché è la storia di un rapporto di amicizia e professionale insieme, ed è una storia che ci riguarda”, scrive il giornalista. Pietro Grasso è entrato in magistratura nel 1969. È stato giudice a latere nel primo maxiprocesso a Cosa nostra e procuratore capo a Palermo. Dall’ottobre 2005 al gennaio 2013 è stato procuratore nazionale antimafia. Ricopre la carica di senatore, dopo essere stato presidente del Senato da marzo 2013 a marzo 2018. Ha pubblicato numerosi libri tra cui, con Feltrinelli: Pizzini, veleni e cicoria. La mafia prima e dopo Provenzano (con Francesco La Licata; 2007), Storie di sangue, amici e fantasmi. Ricordi di mafia (2017) e Paolo Borsellino parla ai ragazzi (2020). Ogni anno incontra centinaia di studenti per raccontare la propria esperienza di lotta alla mafia e portare la straordinaria lezione di coraggio e volontà di giustizia di Falcone e Borsellino. Amici, colleghi, professionisti esemplari con cui Grasso ha condiviso il suo percorso: ecco chi erano i ‘giudici martiri ‘e come li racconta l’autore. Ne emerge un racconto personale di grande valore civile, in ritratti carichi di emozione. Ricorda per esempio Grasso che Falcone gli consegnò il suo accendino. “Piero, tienilo tu. Ho deciso di smettere. Se dovessi ricominciare, me lo dovrai restituire”, gli disse il magistrato. Prosegue Grasso: “Non ne ebbe il tempo. Conservo gelosamente quell’accendino e mi assicuro che risponda al giro della rotella con quella scintilla di fuoco, di forza, di intelligenza, di determinazione, che ricorda gli occhi del mio amico Giovanni”.

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