Padre

Dicembre 2015. Atene. Stadio di Tae Kwon Do. Secondo giorno.

– Posso avere del latte per il mio bambino, per favore?

L’uomo ha già fatto la coda ieri, inutilmente. Stando alle autorità del campo, la distribuzione del cibo per bambini avviene una volta al giorno, e non sono ammesse eccezioni.

Essere genitore non ammette sconti; delle tremila persone qui, ad avere la peggio sono i padri.

– Crede davvero che sarei qui a pregarla se avessi un’alternativa?

Davanti a me è un uomo giovane, elegante nei modi, abituato a prendersi cura della propria famiglia. Viaggia con la moglie e un bimbo di un anno che non smette mai di sorridere.

Gli chiedo con gentilezza di allontanarsi. Ha rinunciato a insistere.

Qualche minuto più tardi, più grassa e goffa di prima, cammino con sua moglie all’interno dello stadio, nella parte riservata alle tende, dove i volontari non entrano.

Attraversiamo lo stadio zigzagando tra le tende e i sacchi a pelo. Alcuni hanno appeso le coperte grigie UNHCR per creare spazi privati per la propria famiglia. Penso alla rincorsa a conquistare angoli e parti perimetrali: la possibilità di avere un muro a cui appoggiarsi; l’accesso a una presa per ricaricare il cellulare; il rischio, ridotto, che tremila persone camminino sul tuo letto nelle ore diurne.

Centinaia hanno scelto gli spalti: meno spazio per dormire, ma la tua camera non è zona di transito. Però dormi stretto stretto tra due livelli successivi, nella parte riservata ai piedi.

Vedo qui, per la prima volta, qualcosa che riconoscerò in altri campi: giovani che dormono giorno e notte. Esistere senza uno scopo; il corpo funziona e tu no.

Oltre la porta che conduce agli spogliatoi, il corridoio è umido; l’atmosfera, quella di una piscina dopo una lezione di nuoto. Superiamo la porta dei bagni, allagati. Tutti si muovono come è naturale: cercando il tragitto più breve per l’uscita, o saltellando dove l’acqua è più bassa. Ricordo di avere notato che la maggior parte delle persone qui possiede solo infradito.

La madre e il bimbo mi precedono; io rallento e penso alla richiesta di ieri.

È la prima volta che distolgo gli occhi dalla donna. Senza scomporsi, accenna un sorriso nella mia direzione:

– Sì, la situazione non è buona.

E, senza altre parole, riprende il cammino.

Io trattengo il fiato. Il bambino sorride.

La gentilezza e il garbo di questa donna e altre che incontrerò sul mio cammino resteranno con me, cambiandomi per sempre.

Libero il mio carico nascosto, latte e altri prodotti per l’igiene del bambino, all’interno della loro tenda. L’assenza di un frigorifero li costringerà a consumare in breve tempo un litro di latte che invece dovrebbe durare a lungo. Balbetto che mi dispiace per domani, ma lei è riconoscente per oggi. E, come ieri, la vergogna mi assale: sono testimone della deliberata e sistematica mortificazione di miei pari.

Percorriamo il corridoio nella direzione opposta; ci salutiamo con un sorriso. Incrocio lo sguardo della persona che mi aveva proibito di distribuire carta igienica, vestiti e cibo. Entrambe sappiamo: che lei è costretta a definire regole odiose per prevenire il caos, e che io potrò agire indisturbata a patto di farlo con discrezione.


(Disegno di Simona Bonardi, da una fotografia di Jeff J Mitchell/Getty Images)

17 settembre 2015, Tovarnik, Croazia. Un bambino piange mentre un gruppo di migranti cerca di aprirsi un varco tra le linee della polizia alla stazione di Tovarnik, nel tentativo di salire sul treno diretto a Zagabria. Dalla Serbia, i migranti avevano iniziato a deviare verso la Croazia dopo la chiusura da parte dell’Ungheria del tratto di confine con la Serbia. La maggior parte di loro era diretta verso la Germania, mentre l’Unione Europea continuava a essere divisa sulla gestione della crisi. 

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