A Trani: quando la scrittura è un’arte del pensiero

di Stefania De Toma

Pare che convinzione di Socrate fosse che la scrittura avrebbe ammazzato il pensiero; e meno male che il suo allievo Platone non l’abbia pensata alla stessa maniera trascrivendo le sue lezioni, perché il dubbio che potesse aver ragione è risolto dalla certezza che le sue preziose e fondamentali riflessioni filosofiche siano giunte poi fino a noi. Non vogliamo contraddire il maestro, tanto più che la prova contraria della sua convinzione non l’avremo mai; fatto sta che in un’epoca in cui il pensiero umano è affidato sempre meno alla carta stampata – e quando avviene si è poco avvezzi a leggere, soprattutto in Italia – ma allo schermo di PC e smartphone, la sensazione è che qualcosa nel sapere generale si stia atrofizzando. E allora girare per uno dei musei più inaspettati e originali di Puglia, non può che generare riflessioni postsocratiche.

Protagonisti del museo in questione sono centocinquant’anni di storia della evoluzione della scrittura meccanica racchiusi in più di quattrocento modelli di macchine per scrivere: la metà della collezione di Natale Pagano, un imprenditore che si definisce “appassionato folle” di questi oggetti – e vedendo il suo sorriso orgoglioso mentre li descrive non abbiamo dubbi – e ha deciso alcuni anni fa di condividere tale passione in una esposizione museale quasi cucita addosso al restauro di un bellissimo palazzo seicentesco accanto a quel monumento di bellezza in riva al mare che è la Cattedrale di Trani.

Un’evoluzione cronologica con pezzi inseguiti in tutto il mondo: dalla storica Sholes e Glidden di metà 800 alla Franklin del 1913; dalla Virotyp del ’14 per i dispacci dalle trincee francesi, all’Olympia dell’esercito tedesco coi tasti per le svastiche; dalla Royal Quit De Lux placcata d’oro, il gioiello usato da Ian Fleming per scrivere delle imprese di James Bond, ai modelli usati per la scrittura in braille; dai modelli con tastiera cirillica, araba, ebraica, con caratteri giapponesi e addirittura per bambini, fino alla mitica Lettera 22, celebre compagna di viaggio di giornalisti e scrittori – in testa Indro Montanelli -, al centro del settore dedicato a Adriano Olivetti.

Oggi è facile scrivere e comunicare, infinite volte più di prima, eppure raramente come in questa epoca diventa difficile separare la superficialità da un approccio serio con gli eventi e la società, addirittura la realtà dalla menzogna, i famigerati fake. Da bambina sedevo ore alla macchina per scrivere di nonno mio, una Olivetti portatile della quale ho conservato pure il tavolino col cassetto pieno di carta intestata sua e tanti, tanti fogli di carta copiativa, che usavo per trascrivere in più copie le mie favole. Ho smesso di giocare con quella macchina più di trentacinque anni fa eppure, ancora oggi, ho l’istinto di “mettere la maiuscola” per i numeri – accade spesso – e sorrido tra me ogni volta, risentendo nella mente quei tasti rumorosi sotto le dita e rivedendo il nastro rosso e nero che mi scorreva davanti fino a “ding” di fine riga .

C’era più remora ad accartocciare un foglio per una frase venuta male che oggi a fare “taglia” con un click, forse si pesavano di più i pensieri prima di metterli su carta, (il grande cronista sportivo Gianni Brera diceva che il “computer ti cambia le parole già in testa”); quelle parole avevano il profumo dell’inchiostro che le scolpiva, e il suono di quei tasti faceva assomigliare le macchine a strumenti musicali. Quando derubarono Gianni Mura – altro giornalista sportivo – della sua Charlotte, una 22 verde acqua che lo accompagnava da sempre, una collega lo descrisse in un pezzo come un violinista privato del suo strumento.

La verità è che la scrittura il pensiero lo forgia, lo ricama – e non è un caso che Natalino sia anche appassionato di penne stilografiche – lo rende eterno, già. E il Museo delle Macchine per Scrivere ci ricorda e ci fa riflettere di quanto dovremmo aver cura della nostra memoria e dei nostri pensieri, di quanto forse dovremmo imparare a essere più riflessivi e prudenti nell’esprimere le nostre idee. La scrittura poggiata sui social, sui messaggini, su supporti informatici è come una casa costruita sulla sabbia, senza fondamenta, effimera; chissà che un ritorno di fiamma verso questo strumento non c’ispiri a una coscienza nuova, a una voglia di reale che già affiora dal ritorno in auge dei dischi in vinile, delle Polaroid che stampano quel che fotografiamo e troppo spesso dimentichiamo nei telefoni. Una sorta di artigianalità nel modo di scrivere che può forse rafforzare il modo di comunicare. Forse abbiamo bisogno di questo.

L’acronimo del nome della fondazione creata da Natale Pagano è SECA e sta per Scripturae Evolutio Cum Arte – l’evoluzione della scrittura con arte – e forse la chiave è tutta qui, in questa idea della preziosità del pensiero umano iniziata da Socrate: la scrittura è un veicolo fondamentale e il ricordarci in un museo quanto sia un’opera d’arte può dare una sferzata all’Umanità che sembra stiamo poco a poco perdendo con il virtuale.

Il museo SECA è uno scrigno di memoria oltre che di oggetti e non è un caso che la passione di Natale Pagano abbia dato spazio in questo polo museale a reperti dell’arte medioevale di Trani, alla massiccia presenza nei secoli della comunità ebraica e di sinagoghe nella Città e a una “Biblioteca Orienthalis” che testimonia il ruolo della stessa città nei secoli come anello di congiunzione tra Oriente e Occidente. Uno scrigno di storie che si raccontano, che vogliono restare, che non vogliono cancellarsi con la carta chimica del laser o in caselle di posta mai aperte, ma anche in social con pagine dimenticate dopo un solo giorno e in memorie di computer rotti.

Vero, la carta può bruciare, magari come una lettera d’amore battuta a macchina nel fuoco di un camino. Ma – sorvolando le calamità incendiarie – vogliamo mettere quanto sia più poetico?

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