Abbiamo scelto il capitalismo della sorveglianza

Oggi, se non si è nei social o online, non si esiste. Ma è davvero così? E qual è il prezzo da pagare?

di  Amedeo Gasparini

The Age of Surveillance Capitalism è un libro del 2019 di Shoshana Zuboff definito fondamentale dalla critica per capire la nostra epoca e il rapporto con le tecnologie, nonché gli impatti del controllo verticale che i guru di Internet hanno sulle nostre scelte quotidiane. E, soprattutto, come questi abbiano un impatto sui nostri comportamenti e consumi. Il concetto di capitalismo della sorveglianza fa riferimento ad una logica, più che una tecnologia, che ha preso piede con l’evoluzione del big business, del Big Tech e il costante flusso di informazioni. Le tecnologie si adattano alle persone. Lo stesso capitalismo «si evolve in risposta ai bisogni delle persone nel tempo e nello spazio», scrive l’autrice. Non c’è un destino fissato per le persone e le tecnologie. Queste ultime si conformano in base alle necessità individuali. «Lo spazio digitale ha amplificato le nostre voci», forgiando nuovi sistemi di connessione tra individui.

La principale critica di Zuboff è che gli utenti non sono più il fine stesso della tecnologia, ma diventano dei mezzi per i fini di altre persone. Sebbene sia violata, la privacy degli utenti nella logica del capitalismo della sorveglianza non è del tutto distrutta, ma è ridistribuita. È alla mercé delle grandi aziende tecnologiche e, dunque, a loro disposizione per orientare i nostri comportamenti e desideri. «Siamo dei mezzi al fine di altri», scrive l’autrice. Un qualcosa che ha in parte una certa continuità con il primo capitalismo industriale fordista, secondo la critica marxista. Se l’industrializzazione del diciottesimo secolo ha trasformato la natura dei materiali grezzi, il capitalismo della sorveglianza nel ventunesimo ha trasformato le preferenze e la privacy individuale in una nuova la commodity.

Zuboff parla a tal proposito di uno sfruttamento che prevede la trasformazione dei nostri dati comportamentali in un complesso di dati manipolati per controllarci. In questo senso, l’ignoranza è una condizione necessaria per la manipolazione e il capitalismo della sorveglianza. Siamo noi cittadini che abbiamo deciso inconsapevolmente di vendere la nostra privacy, i nostri dati. I meccanismi di mercato, secondo Zuboff, avrebbero ridirezionato il nostro comportamento e le nostre preferenze attorno ai desideri di Big Tech.
Il capitalismo della sorveglianza prolifera in un vasto terreno senza legge. All’origine del capitalismo della sorveglianza c’è il “cyberlibertarianismo”. Ovvero, l’assenza di limiti alla libertà di dire tutto quello che si pensa e si vuole. Questo ha creato vere e proprie bolle o echo chambers che minano la libertà di tutti all’interno delle reti sociali. Zuboff mette sotto la lente di ingrandimento Google e Facebook. Critica le misure liberticide post-11 settembre, definendole come surveillance expecitionalism. Il che ha aperto un’autostrada verso l’accumulo di dati delle persone spesso con il loro implicito consenso.

I signori del Big Tech guadagnano dall’accumulo dei dati senza rischi di sanzioni. «Il capitalismo della sorveglianza è riuscito a mantenere la democrazia a bada» insiste Zuboff. L’utente non deve pagare per usare un servizio online, ma il guadagno della compagnia è garantito dal traffico di dati che le interazioni degli utenti generano. Il dispossession cycle prevede l’appropriazione da parte dei capitalisti della sorveglianza, tramite una sequenza di informazioni e preferenze e comportamenti degli utenti online. Tale approvazione, “surplus extraction”, è stata col tempo normalizzata. Ogni livello di innovazione si sovrappone a quello precedente e incrementa anche l’estrazione del surplus comportamentale in una scala crescente. «L’inedita centralizzazione della conoscenza produce un’eguale significa concentrazione di potere». L’autrice parla di una privatizzazione non autorizzata del sistema di learning nella società. Zuboff spiega che è il mercato che «decide chi decide».

Dimenticando che il mercato è uno, stabilisce prezzi ed è aperto a tutti i cittadini, molti dei quali o quasi tutti disattenti rispetto alla cessione volontaria di informazioni online. A facilitare la cessione volontaria di dati è stato il fatto che oggi, se non si è nei social o nelle logiche comportamentali online, non si esiste. Per i capitalisti della sorveglianza evadere la nostra conoscenza e attenzione per la nostra privacy è una condizione essenziale per la produzione di conoscenza e riorientamento delle preferenze. Zuboff spiega che siamo diventati risorse al servizio del capitalismo della sorveglianza e fonti dirette di produzione di dati. Il capitalismo della sorveglianza pilota e orienta i dati. Rappresenta una logica di accumulazione per la brama di controllo di alcuni. Il capitalismo della sorveglianza fa in modo che i mezzi di produzione siano subordinati, secondo l’autrice, all’elaborazione di nuovi mezzi per modificare le preferenze delle persone.

Zuboff elenca alcuni fattori che hanno consentito al capitalismo della sorveglianza di essere così pervasivo nella nostra vita. Primo: l’onda tecnologica che ha rappresentato il cavallo di Troia nelle nostre preferenze e privacy.

«Molti di noi non hanno resistito alle prime incursioni di Google, Facebook e altra operazione dei capitalisti della sorveglianza perché era impossibile e riconoscerli». Secondo: la mancanza di precedenti simili ha lasciato tutti disarmati. Inoltre, il fatto che il capitalismo della sorveglianza abbia trovato riparo in un’epoca di neoliberismo spiega i limiti di controlli e regolamentazioni. L’inclusività dei social è stata una condizione che i capitalisti della sorveglianza hanno sfruttato. Anche la dipendenza da questi sistemi si è rivelata irresistibile dal momento che fungevano da sistemi di partecipazione sociale affiancati ai mezzi di alterazione comportamentale. Anche l’identificazione degli utenti dei capitalisti della sorveglianza ha avuto un ruolo decisivo per la loro penetrazione nel campo delle nostre preferenze.

Un altro elemento sottolineato da Zuboff è la “dittatura delle non alternative”, alternative ai vari Google e Facebook. L’ultimo fattore è il fatto che i capitalisti della sorveglianza si sono basati sull’ignoranza umana e il fatto è che tutti gli utenti hanno concesso al Big Tech accessi alla privacy e ai loro dati per il loro profitto. L’“instrumentarianismo” – la strumentalizzazione del comportamento con l’obiettivo di modificare, predire controllare e monitorizzare gli utenti – è un elemento di comprensione del capitalismo della sorveglianza. Denota il fatto che i capitalisti della sorveglianza usano le persone come burattini, trasformando gli utenti in mezzi per i fini di altri. Questo potrebbe considerarsi una delle forme di totalitarismo digitale.

Il totalitarismo «intendeva la ricostruzione nella specie umana attraverso un meccanismo duale di genocidio e ingegnerizzazione dell’anima». Il potere “instrumentale”, invece, non ricorre alla violenza. Opera attraverso meccanismi di cambiamento comportamentale. Non si basa sulla salvezza spirituale, ma sul cambio di percezione e delle scelte di consumo. Il capitalismo della sorveglianza è, secondo Zuboff, un burattinaio che impone la propria volontà attraverso l’apparato digitale che l’autrice chiama Big Other. In conclusione, i social media che alterano la volontà individuale non si possono sostituire alla volontà stessa di creare profili online o prendere parte agli spazi digitali. Li conduce verso un comportamento più automatico. «I social media sono disegnati per le persone di tutte le età, ma principalmente modellati rispetto alla struttura psicologica dell’adolescente e degli adulti emergenti», facendo leva sui concetti cari ai capitalisti della sorveglianza. Ovvero, inclusione, appartenenza, accettazione e riconoscimento da parte degli altri. I social sono strumenti del capitalismo della sorveglianza e caratterizzano una nuova epoca marcata dalla intensità, dalla densità e dalla pervasività.

Il capitalismo della sorveglianza dipende dal controllo della natura umana e, secondo Zuboff, è da condannare. Esso cambia la nostra natura per i propri fini di lucro, ma siamo noi stessi che abbiamo consentito a questa nuova forma di totalitarismo digitale di prendere piede nelle nostre vite e nelle nostre società. Zuboff identifica questo capitalismo della sorveglianza come un coup dall’alto. La “radical indifference” di cui parla l’autrice, se non giustifica il capitalismo della sorveglianza, ne spiega il successo. Il capitalismo della sorveglianza «ignora le vecchie distinzioni tra mercato e società, mercato e mondo, o mercato e persona». L’autrice insiste che è una forma dedita al profitto dove la produzione è subordinata all’estrazione unilaterale e al controllo sopra degli esseri umani. L’obiettivo del nuovo totalitarismo digitale non è quello di dominare la natura come i vecchi totalitarismi del Novecento, quanto controllare la natura umana.
www.amedeogasparini.com

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