Accogliere sì, integrare no. Da Minniti a Salvini, come cambia l’accoglienza dei richiedenti asilo in Italia

Accogliere senza integrare, sorvegliare senza formare. Le nuove direttive sui richiedenti asilo in Italia conseguenti all’approvazione del Decreto Salvini su Sicurezza e Immigrazione, mutano radicalmente il panorama dei centri di accoglienza in Italia e, con esso, il ruolo degli operatori umanitari. Ma lo fanno nel solco di una continuità con il precedente ministro degli interni Marco Minniti che, grazie agli accordi con la Libia, ha fatto crollare i numeri degli sbarchi.

Dai 123mila e seicento nel 2016, ai 3mila 950 nel 2019.

Ad  una prima occhiata, basterebbe questo confronto statistico tra i dati sulla presenza dei richiedenti asilo in Italia per capire quanto il cambio di governo (tra Pd e Lega-5Stelle) abbia inciso sulle politiche migratorie e contestualmente sui flussi di migranti in entrata sulla rotta libica. Eppure, ad un esame più accurato, appare evidente come il drastico crollo sia avvenuto prima del 2018, quando al governo c’era Paolo Gentiloni e a ministro degli Interni Marco Minniti, entrambi in quota Pd. Una serie di accordi bilaterali dell’allora governo con le tribù libiche per scongiurare l’emergenza migranti, anche in chiave elettorale aveva permesso di passare dai 119mila sbarchi del 2017 ai 23mila del 2018, con un crollo verticale nei primi sei mesi dell’anno, quando in carica era ancora il governo Gentiloni.

Ciò che differenzia la soluzione proposta dalla Lega della crisi migratoria rispetto a quella del Pd è una diversa concezione delle misure di accoglienza dei richiedenti arrivati in Italia, che recepisce in modo autenticamente antitetico la convenzione di Ginevra del 1951, e che tocca servizi di inclusione (formazioni professionali), integrazione (insegnamento della lingua italiana) e accompagnamento all’autonomia (inserimento al lavoro).

Tagliati i fondi per le formazioni e gli inserimenti lavorativi dei migranti, così come quelli per i corsi di italiano, i nuovi bandi ministeriali hanno deciso di fare a meno non solo di diverse figure professionali (infermieri e insegnanti di italiano su tutti), ma soprattutto di funzioni di accompagnamento in un percorso di integrazione ed emancipazione del richiedente, giudicato non solo troppo dispendioso in termini economici, ma soprattutto contraddittorio – e dunque politicamente svantaggioso – rispetto alle misure di welfare riservate ai cittadini italiani in difficoltà.

Sono circa 40mila le persone (perlopiù italiane e laureate in un paese che sforna pochissime possibilità di lavoro qualificato) che lavorano ancora oggi come operatori sociali o umanitari nei centri di accoglienza straordinaria in Italia. E sono all’incirca 18mila gli operatori che rischiano il posto per effetto del taglio (come confermano i conti dei sindacati confederali Cgil-Cisl e Uil che monitorano da vicino l’evolversi della situazione). Per chi ha deciso di proseguire nel settore, si pone una domanda fondamentale: accettare le nuove condizioni che premiano il massimo ribasso economico rispetto alla qualità dei servizi offerti, o fare un passo indietro, rivendicando la scelta etica di non voler proseguire nell’erogare un servizio di accoglienza che non solo non riesce a restituire dignità e prospettiva agli ospiti dei centri, ma che anche priva di autorevolezza e valore sociale un lavoro – quello degli educatori e degli operatori umanitari – mai sufficientemente riconosciuto.

La risposta a questo universo contraddittorio, se esiste, può derivare proprio da quelle forze attive, laiche, cristiane e musulmane, che si sono adoperate in questi anni per reggere l’urto di un’emergenza migratoria che ha spesso messo a rischio – se non superato, in condizioni critiche  – la soglia minima di umanità.

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