di Alberto Costa
La bella copertina del numero di settembre del nostro Corriere, dedicata all’emigrazione femminile dall’Italia, mi ha dato la spinta finale a scrivere queste righe dedicate invece alla “emigrazione” dalla Svizzera o, meglio, al ritorno in patria degli emigranti che hanno passato la loro vita lavorativa nella Confederazione.
È difficile parlarne in modo oggettivo, perché si finisce inevitabilmente nell’aneddotica, nei casi personali, nelle storie di amici e conoscenti. Tuttavia, penso che qualche riflessione possa essere fatta in modo oggettivo e senza toni polemici, con la genuina intenzione di aprire un dibattito sull’argomento. Presento quindi alcune riflessioni a scopo sia informativo sia di provocazione, in modo volutamente parziale ma anche il più possibile obbiettivo.
Che cosa penso oggi della Svizzera, dopo averci lavorato e vissuto per circa venti anni?
Un Paese per ricchi
Chiunque ha vissuto abbastanza a lungo in Svizzera ha pensato almeno una volta che il Paese di Guglielmo Tell abbia come strategia ben precisa quella di attirare un numero rilevante di cittadini ricchi da ogni parte del mondo offrendo sicurezza, ordine, efficienza, pulizia in cambio di un congruo pagamento di tasse. Il principio è molto semplice e si basa sul far pagare ai paperoni del mondo meno tasse che nel loro Paese di origine e di avere comunque entrate così importanti da diminuire il peso fiscale sui cittadini svizzeri veri e propri.
Questa strategia porta quindi a un controllo dell’immigrazione molto ferreo. Niente africani e pochissimi asiatici ma solo manodopera abbastanza specializzata e istruita per svolgere le mansioni che occorrono a far funzionare i servizi: giardinieri, cuochi, camerieri, infermieri, autisti, ecc e quindi molti italiani, portoghesi, serbo-croati, macedoni, albanesi. Tutti bianchi, comunque, tutti integrati e ben inquadrati nella struttura amministrativa ed organizzativa dei 26 cantoni.
Un Paese per sani
Sento spesso dire da amici italiani che sono stato fortunato a lavorare in Svizzera perché “lì si pagano meno tasse” ed è certamente vero, solo che si dimentica sempre di dire che le tasse svizzere non comprendono l’assistenza sanitaria, che va pagata a parte, come assicurazione obbligatoria e che ha costi in continua crescita. Non c’è depliant elettorale di qualsiasi partito che non protesti per il costante aumento dei premi delle “casse malati”. Interessante notare che questo costo è di importo quasi uguale per il miliardario e per l’operaio, anche se poi vi sono diversi meccanismi di compensazione.
Ma oltre che per i costi, il problema della sanità svizzera è costituito anche dal fatto che ogni cantone ha il suo apparato sanitario e fino a pochi anni fa non era consentito andare a farsi curare in un cantone diverso da quello di residenza. Tuttora la mobilità non è certa incoraggiata, anzi. Lavoratori di lingua italiana che per capire meglio la propria malattia preferirebbero farsi curare in Canton Ticino, sono spesso dissuasi dal farlo e vengono “trattenuti” dai medici locali di lingua tedesca o francese. Come si può ancora pensare che ogni cantone possa fornire le cure per tutte le malattie? Si faranno in futuro 26 istituti tumori, 26 istituti di neurologia, 26 centri per i trapianti di cuore? Fino a che la medicina difendeva il principio che tutti i medici possono “fare tutto” ha prevalso l’impostazione degli ospedali cantonali “tuttofare”, ma ora che la specializzazione ha ampiamente prevalso, si spera che comincerà qualche forma di centralizzazione, pena l’inesperienza dei medici, le casistiche troppo limitate, i controlli insufficienti.
Non va meglio nel campo della prevenzione. Emblematico l’esempio del piano per il controllo del radon, il gas nobile radioattivo naturale, responsabile del 10% dei tumori polmonari. Come si può leggere sul sito dell’Ufficio Federale della sanità pubblica vengono censite ogni anno dalle 200 alle 300 morti legate a questo agente causale. Ma il piano di azione lanciato dalla Confederazione nel 2012 è terminato con risultati deludenti: le misurazioni sono state effettuate solo nel 6% degli immobili elvetici e non sono state rese disponibili cifre sugli edifici risanati. Un nuovo piano è stato lanciato nel 2021 e si concluderà nel 2030 (RSI, 22 aprile 2023).
Un Paese neutrale e sempre più neutro
La neutralità ha il suo fascino e a prima vista dà un senso di superiorità a chi la fa propria. Ma se già questa specie di “purezza politica” si era già molto incrinata dopo la Seconda guerra mondiale (ma come si fa a rimanere neutrali davanti a Hitler?) oggi è sempre più imbarazzante: come si fa a rimanere neutrali davanti a Putin? Da qui una serie di salti mortali doppi e tripli, aderendo alle sanzioni per non isolarsi troppo dal resto del mondo Occidentale, ma nello stesso tempo restando molto “flessibile” con le enormi ricchezze russe presenti nelle banche svizzere, producendo armi e vendendole in tutto il mondo, ma impedendo che vengano poi date in aiuto all’Ucraina. Dice il signor Max Spiess, candidato UDC al Consiglio Nazionale: “la Svizzera si è trovata nella situazione di non far valere la sua neutralità nel conflitto Russia-Ucraina. L’aggressore non va difeso (sic!) ma avremmo potuto distanziarci dal conflitto facendo valere la nostra neutralità riconosciuta a livello internazionale” (Edizione straordinaria del giornale UDC, settembre 2023, pag 17).
Così la neutralità si trasforma pian piano in “neutrità”, in una specie di limbo misterioso che porta la Svizzera ad essere percepita come un Paese che non sta mai da nessuna parte, né pro né contro nessuno, sempre nel dubbio che qualsiasi conflitto possa diventare un affare per le sue banche e per le sue aziende (sia pure con scarso successo, per esempio, circa un anno fa fu organizzata proprio a Lugano una conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina, intesa come grande opportunità di business).
Dice sempre il signor Spiess: “L’accordo con la NATO (andato in porto a seguito di una personale iniziativa della consigliera federale Viola Amherd) potrebbe mettere a repentaglio la nostra neutralità”. Gli fa eco nella stessa pagina il signor Brenno Martignoni Polti che tuona: “Non dobbiamo diventare né una colonia di Bruxelles né di chicchessia”. Ma è sicuro che Bruxelles muoia dalla voglia di avere la Svizzera come ventottesimo membro dell’Unione Europea?
Tipiche le formule con cui la stampa svizzera ha commentato il recente vertice di Gedda, per esempio. “tenutosi lo scorso weekend, il vertice ha messo insieme 40 Paesi, Cina compresa, e nonostante alcune divergenze, tutti si sono impegnati a partire nei colloqui di pace dall’integrità del territorio ucraino, nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite, del diritto internazionale e dei principi di sovranità. La Svizzera non ha preso parte a questo vertice di alto livello sul conflitto in Ucraina: Il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) ha spiegato all’agenzia Keystone-ATS che l’incontro di Gedda è una continuazione di quello di Copenaghen, e nemmeno in quell’occasione la Confederazione era presente. L’assenza di Berna era stata segnalata per prima dalle testate CH-Media. Il DFAE ha sottolineato che accoglie positivamente lo svolgimento si simili vertici, molto importanti per cercare una via d’uscita pacifica dal conflitto. La Svizzera segue i lavori «con attenzione» e rimane in contatto con le autorità ucraine”.
Un Paese per nascondere e nascondersi
“La criminalità organizzata” – ha recentemente dichiarato la direttrice di FedPol, Nicoletta della Valle, alla stampa domenicale – “sebbene ancora piuttosto discreta, si trova troppo a suo agio in Svizzera”. Il Paese è attraente per tutti i tipi di criminalità organizzata, non solo come luogo in cui nascondersi, ma anche come centro per il traffico di droga, esseri umani e armi, ha precisato ancora della Valle a Dimanche Matin. “Dobbiamo anche adottare misure preventive”, aggiunge, “espellendo i criminali o vietando loro l’ingresso in Svizzera”.
La questione del denaro sporco resta bruciante per alcune parti del sistema bancario della Confederazione – scrive Federico Fubini sul Corriere della Sera dopo la “fusione” UBS-Credit Suisse. Mesi fa l’associazione nazionale del credito ha rivelato a Reuters che i conti in svizzeri intestati a cittadini russi valgono ancora fra i 150 e i 200 miliardi di euro. Non se ne conoscono i beneficiari: si sa solo che il valore delle fortune congelate non supera i 9 miliardi mentre il resto è nella disponibilità di chi sa chi.
Un Paese in coda e affetto da crescente vittimismo
La parola più frequente nei bollettini del traffico alla radio è “stau”.
Dice Benjamin Giezendanner, imprenditore argoviese e anche lui candidato UDC: “ogni giorno rimaniamo bloccati negli ingorghi stradali. Il motivo principale è rappresentato dall’immigrazione di massa. Le ore annuali di traffico sulle strade nazionali sono quadruplicate dal 2000!”.
La descrizione della vita quotidiana in Svizzera fatta dalla propaganda UDC è quasi terrorizzante. Titoli dal paginone centrale dell’ultima edizione straordinaria: “cementificazione del paesaggio”, esplosione dei costi sociali”, “crollo del livello di istruzione”, perdita di benessere”, “penuria di alloggi”, “infrastrutture al limite”, “violenza e criminalità importate”. Magari sono quelli dell’UDC ad essere un po’ esagerati? Invoca il foglio del Partito Socialista: “Affitti accessibili, premi di cassa malati più bassi, pensioni dignitose!” e ancora, protesta il depliant elettorale del “partito della concretezza”, Il Centro: “salviamo i contadini e i nostri alpeggi!”, “stop al licenziamento abusivo delle giovani mamme!”, “la Svizzera è tra le poche nazioni in Europa che non ha ancora una legge che proibisca le punizioni corporali sui bambini, siamo alla preistoria legislativa!”, “stop alle attuali pene ridicole per pedofili e stupratori”.
Qualcuno sogna ancora di andare a vivere in un Paese così? E se in realtà non è così, perché la propaganda preelettorale sceglie questi toni e questi argomenti?
Aggiungete gli effetti psicologici del fallimento del Credit Suisse, il danno di immagine in tutto il mondo che ne è derivato, la fine del mito dello “Swiss quality” e ne uscirete certamente frastornati. Raccontò a suo tempo Franco Zantonelli su Repubblica che all’ultima assemblea del Credit Suisse all’Hallenstadion di Zurigo si presentarono 1740 azionisti infuriati per gli scandali irrimediabili in cui l’Istituto si era lasciato coinvolgere.
“Durante l’assemblea, il presidente della banca, Axel Lehmann, si è scusato per non aver saputo frenare la perdita di fiducia, deludendo in tal modo azionisti e clienti. Ma coloro che si sono visti azzerare 16 miliardi di franchi di obbligazioni subordinate certo non si accontenteranno delle scuse”. Conclude Zantonelli: “dopo la fine del segreto bancario, questo ennesimo scandalo fa apparire le banche elvetiche in ritirata e con la reputazione a pezzi. Si ripercuote su di un Paese che ha dimostrato di avere ben pochi amici…”.
Gli fece eco Federico Fubini sul Corriere della Sera sottolineando come la nuova entità nata dalla fusione UBS-Credit Suisse “avrà una quota di mercato pari a due terzi dell’intero settore bancario. Nessuna autorità antitrust di un Paese democratico accetterebbe il formarsi di un potere economico così ampio nelle mani di una sola impresa. Alla fine del processo la Svizzera avrà una banca i cui attivi varranno il doppio del PIL del Paese e i patrimoni in gestione varranno sei volte più dell’intera economia nazionale. UBS si appresta a regnare su un Paese pieno di talenti e dinamismo, ma anche di ombre e contraddizioni da sciogliere”, conclude Fubini.
Diceva Orson Welles in una memorabile scena de “Il terzo uomo”: “Gli svizzeri hanno avuto cinquecento anni di pace e democrazia. E cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù”.
Il dibattito è aperto.