Alle radici dell’analfabetismo di ritorno

di Edoardo Pivoni

Dal 2015 la comunità internazionale ha adottato l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, che include 17 Obiettivi entro tale anno. Questi richiedono che si elimini la povertà estrema e si dimezzi la povertà in tutte le sue dimensioni. In particolare, l’Obiettivo di sviluppo 4 mira a garantire “un’educazione di qualità, inclusiva, equa, e promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti, nell’ambito dell’impegno a non lasciare nessuno indietro, cercando di favorire coloro che sono attualmente svantaggiati – le famiglie più povere, le donne, e soprattutto i bambini”. L’istruzione non è però un elemento solo funzionale al sistema economico. L’istruzione è un diritto ed è stato inserito nell’Accordo internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, e definito come necessario al pieno sviluppo della personalità umana e del senso della sua dignità. È ancora tanto il lavoro da fare, in una società di transizione come la nostra, che non può tradursi in risultati concreti senza porre in discussione la società stessa.

Oggi possiamo dire che la scuola e la sua educazione siano figlie di un sistema che, sebbene riformato nel corso dei decenni, affondi in basi individualistiche e poco propense a formare generazioni con qualche senso comune.

Alla fine dell’Ottocento, il sociologo Émile Durkheim vedeva la rapida trasformazione della Francia da una società di tradizione agricola ad un’economia industriale. Ciò che però lo colpì profondamente era una delle sue principali teorie ed intuizioni sul mondo moderno: il malessere psicologico indotto da questa Rivoluzione industriale e dall’economia capitalista più sfrenata. Questa è stata l’immensa rivelazione nella sua opera più importante, Il suicidio, pubblicata nel 1897, proprio sui tassi crescenti di suicidio dal momento in cui la nazione si era industrializzata. Siamo in epoca “positivista”, dove il progresso tecnico-scientifico e industriale non sembra avere un limite e tutto può andare solo per il meglio.

Chi può cogliere queste trasformazioni? La classe dirigente, quella che domina la società coi suoi grandi capitali e può attuare performance economiche al meglio e costituire il nerbo e l’esempio del domani per chi voglia imitarla. Se prima un appartenente al ceto medio si sentiva soddisfatto della propria vita, non lo era più dopo in un mondo dove l’invidia sociale collegava tutti quanti e illudeva che tutti potessero diventare qualcosa o qualcuno. Ecco che le scuole, l’educazione, l’istruzione ruotavano e hanno ruotato per molto tempo intorno a questi concetti: la produttività, la performance economico-sociale dei singoli, la concezione utilitaristica dei titoli di studio.

Chi non riesce a cogliere queste trasformazioni o le ristrutturazioni economiche per rimanere al passo? I più poveri o gli emarginati, chi non ha gli strumenti per adattarsi a questi cambiamenti e ne è tagliato fuori. Questa è la povertà culturale delle origini, cioè classista, da quando siamo entrati in un’era industriale: la non universalità dell’istruzione, l’accesso diseguale alle risorse culturali, la scarsità dei mezzi per riconoscerli.

In Educazione e sociologia, postuma del 1922, Durkheim aggiunse però in un’ottica più conservatrice che ogni società, considerata in un momento determinato del suo sviluppo, ha un sistema educativo che si impone agli individui con una forza generalmente irresistibile. È vano credere che noi possiamo allevare i nostri figli come vogliamo, secondo il sociologo francese.

Ci sono costumi ai quali siamo tenuti a conformarci: se vi deroghiamo troppo fortemente, essi si vendicheranno sui nostri figli. Questi, una volta adulti, non saranno in grado di vivere in mezzo ai loro contemporanei, con i quali non sono in armonia. Sicuramente questo è opinabile, ma nelle società del passato, quelle più tradizionali, le identità delle persone erano strettamente legate a un clan o ad una classe, erano quindi poche le scelte per l’individuo, che rassicuravano la sua esistenza e la sua “capacità d’istruzione”.

Oggi invece tutto è apparentemente libero e possibile. Questa assoluta libertà di scelta è figlia della Rivoluzione industriale e illuminista e non è un male di per sé: che religione seguire, cosa studiare, quale lavoro intraprendere, chi e se sposarsi, a quale comunità appartenere, ecc. Diventa un “male” però se non vi sono sostegni alla base di ogni scelta possibile dell’individuo, in una società a rischio costante di disuguaglianze economiche. In casi di svantaggi di genere, sociali, culturali ed etnici, chi non sa, non vuole o non può scegliere un percorso educativo, si trova spesso ad affrontare la dispersione scolastica, l’analfabetismo di ritorno, l’analfabetismo funzionale. Sono i figli di una società dei consumi onnipresente che non educa i suoi cittadini, ma fa credere loro di vivere nel benessere e li invita solo a invidiare e a consumare se stessi e le cose.

 

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