Antonio Ligabue: storia di un immigrato

La mostra su Antonio Ligabue organizzata a San Gallo, Antonio Ligabue – The Swiss Van Gogh presso il Museum im Lagerhaus, offre molti spunti oltre alla riflessione sulla tecnica pittorica di un artista definito in un primo tempo naif e poi entrato a ragione e con tutti gli onori nel novero degli interpreti dell’espressionismo. I numerosi quadri e disegni esposti a San Gallo, dedicati agli amati animali nonchè i molto autoritratti, colpiscono profondamente il visitatore. Dalle opere di Ligabue, infatti, emerge violentemente la natura tormentata di un uomo poco amato, poco capito, etichettato dal sistema svizzero fino ai vent’anni e poi da quello italiano fino alla sua morte, come diverso. Costretto a vivere ai margini della società anche l’ultimo periodo della sua vita, quando poteva contare su fama e denaro.

Di certo a leggere la documentazione svizzera sulla sua situazione, possiamo affermare che sulla sua mente e sul suo carattere aveva pesato come un macigno la sua storia.

Nasce alla fine del 1800 da Elisabetta Costa ma da padre sconosciuto. All’età di due anni, dopo essere stato adottato dal marito della madre, Bonfiglio Laccabue, viene abbandonato dalla famiglia e dato in affidamento ad una famiglia svizzera. Misura resa necessaria dalle gravi condizioni di salute del bambino: alimentazione carente ed inadeguata e rachitismo. Il distacco forzato, la fame patita nei primi anni di vita, hanno su di lui effetti devastanti. Unico talento riconosciuto: il disegno; unica forma di tenerezza: quella verso gli animali. Nei confronti delle donne ebbe invece un atteggiamento di paura e nello stesso tempo aggressivo e poco rispettoso. Giocò sicuramente un ruolo fondamentale la cultura del tempo e i rapporti tra i genitori adottivi che finirono per alterare del tutto la sua percezione dell’affettività.

Potrebbe essere una storia come le tante che accomunano gli artisti, se non fosse la storia di un’immigrazione mai sbocciata in integrazione. Ed ecco perchè la storia di Antonio Laccabue (divenuto Ligabue per odio nei confronti del patrigno, reo ai suoi occhi della morte della madre e dei fratellastri), i suoi tormenti, le sue opere, costringono a riflettere sulle sorti di un’intera generazione, partita alla volta della ricca Svizzera per condurre una vita migliore ma costretta a fare i conti con la dura realtà di un mondo inclemente. Ne subiranno gli effetti i figli di questa povera gente: stranieri in Svizzera a causa della cittadinanza italiana, stranieri in Italia. Lo stesso Ligabue d’altronde nel 1919, data del suo rientro in Italia, non parlava una sola parola di italiano.

La rabbia, la frustrazione, l’isolamento di quegli anni sono tutti nelle sue opere. I quadri di Ligabue sono forti, pieni di colore; naif era solo il suo personaggio a mio parere. Lo definirono tale per la sua vicinanza alla natura, ma in lui non vi è nulla di morbido: ci sono tigri che azzannano gazzelle, serpenti che lottano con felini enormi, la natura è dipinta “in pace” solo nella distanza e nel paesaggio. Ma la vita nel mondo animale è feroce ed è difficile comprendere in chi s’identifica l’artista. Dovessimo ragionare per simmetrie di colore, nel quadro del giaguaro che azzanna  la gazzella, i colori del felino, bianco e nero, sono gli stessi con cui l’artista si ritrae e quelli della gazzella quelli del suo accompagnatore. E d’altro canto la violenza dei suoi comportamenti, intrisi di sessualità repressa e consapevolezza della sua scarsa forza fisica, è verbalizzata nei numerosi istituti psichiatrici dove il Nostro vive fino al rimpatrio.

Nella maturità trascorsa in Italia, emerge la sua condizione di emarginato; si abbiglia da donna per ricreare, almeno nella sua mente, la presenza di un altro essere umano che lo possa amare.  Nella necessità di creare categorie concettuali, alcuni critici lo hanno definito il” Van Gogh Svizzero”, eppure almeno negli esordi la vita dell’olandese e del nostro Ligabue è molto diversa. Il primo poteva contare sul fratello Theo e su una famiglia allargata che cercò di aiutarlo in tutti i modi. Van Gogh aveva cultura artistica, conosceva i pittori famosi del suo tempo, tanto da voler creare un’associazione di pittori. Nel suo caso i medici parlarono di diverse malattie (schizofrenia, il disturbo bipolare, con l’aggravante della malnutrizione, del lavoro eccessivo, dell’insonnia e del consumo di alcool, in particolare di assenzio). Ligabue non venne mai definito nei documenti medici “schizofrenico”. Venne bollato come demente, aggressivo, malizioso, deviato. E fu proprio per fare in modo che l’aggressività che Ligabue manifestava non si sfogasse mai contro le persone che venne indirizzato al disegno. In tal senso l’autoritratto era il mezzo per far leggere al personale sanitario quello che lui non riusciva a spiegare. Con il tempo divenne un’abitudine ed un modo per riconoscersi.

Dunque, Antonio Ligabue scoprì il suo talento grazie alla pedagogia curativa connessa alle cure psichiatriche che nel secolo scorso venivano applicate a casi come il suo. Nessuna buona frequentazione, nessun Gauguin con cui condividere un’esperienza artistica ma istituti deputati alla cura mentale, esami costanti ed infine, essendo l’Italia a quel tempo scarsa di mezzi, la vita selvatica come quella degli animali che dipingeva.

Antonio Ligabue, cresciuto in Svizzera, figlio di poveri immigrati che lo abbandonarono, denutrito, rachitico, affetto da impossibilità di apprendimento, scuote la nostra coscienza di cittadini del mondo e ci obbliga a guardare oltre la sua arte, a vedere l’uomo e a pensare nello stesso tempo ai tanti stranieri che non apparterranno mai a nessuon luogo e che hanno però il diritto di vivere una vita degna di essere vissuta.

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