Architettura tra sincerità e occultamento: gli spazi concepiti da Elio Petri e Dante Ferretti per Todo Modo

di Andrea Foppiani

Ai luoghi, agli edifici, alle architetture più o meno illustri che vengono scelte come set cinematografico spetta solitamente un lampo di fama, durante il quale l’immaginario collettivo del pubblico ne fissa più o meno le coordinate, associandolo al nome di una pellicola, di un regista, di un interprete. Tanti altri luoghi non precisamente connotati hanno lo scopo di fare da sfondo alle vicende, come un paesaggio-tipo, generico contesto di una narrazione. Da questa dicotomia resta però fuori un terzo tipo di luogo o architettura della narrazione cinematografica: quello della finzione.

Il mondo della scenografia è il perfetto terreno di incontro tra la prima e la settima arte: la concretizzazione materiale e quindi architettonica di una visione cinematografica, così come un regista o uno sceneggiatore l’hanno immaginata. Talvolta può capitare che proprio un regista, ed è il caso di Elio Petri, possa affezionarsi ad un linguaggio architettonico in particolare: quello brutalista, per mettere in risalto i temi fortemente controversi oggetto di una discussa pellicola come il suo Todo Modo (1976).

Rispetto all’omonimo romanzo di Sciascia (pubblicato nel 1974), che il film ripercorre fedelmente nella sua feroce critica al sistema politico italiano dell’epoca, è nella scelta dell’ambientazione che Petri si distacca dal modello di partenza: al paesaggio idilliaco e bucolico in cui Leonardo Sciascia colloca l’eremo-hotel di Zafer, luogo in cui l’intera vicenda prende corpo, il regista preferisce opporre una severa architettura in calcestruzzo, immersa nel sottosuolo come un bunker, accessibile dal mezzo di una misteriosa pineta.

A muoversi in questo scenario sotterraneo, costruito ad-hoc tra gli studi di Cinecittà e il giardino presidenziale di Torvaianica grazie al genio di Dante Ferretti, sono personaggi freddi, spietati e smarriti, uomini potenti del partito al governo, riuniti tra le grigie e ruvide mura dell’eremo dell’ambiguo don Gaetano. A partire dall’inizio del film, segnato dall’arrivo dei notabili nelle loro automobili nere, la vicenda narrata si rinchiude sotto le scure chiome dei pini marittimi ove sorge il monumentale ingresso dell’eremo, via di accesso ad un labirintico sistema di spazi scavati sottoterra. Da qui, fatta eccezione per la tragica conclusione, la scena si svolge al riparo dal mondo esterno, in un regno sotterraneo le cui regole sono stabilite da don Gaetano.

All’interno, fatto di locali dall’accentuata orizzontalità, una luce piatta e artificiale arriva diffusa dall’alto, attraverso travature dalle nervature geometriche, o da tagli tra pareti e controsoffitti, disegnando le ombre dei presenti e delle bianche sculture che popolano vasti spazi vuoti. Stanze e corridoi si mostrano nella loro monacale essenzialità, con arredi in pino sull’onnipresente sfondo grigiastro del calcestruzzo, a citare grandi maestri del béton armè come Le Corbusier o Louis Kahn.

Che questo dedalo ipogeo caratterizzato dai contrasti esista realmente o meno, non ha importanza ai fini dell’uso che Elio Petri ne fa nel corso delle riprese: l’architettura è a tutti gli effetti co-protagonista in questo film, con lo scopo di generare atmosfere indissolubilmente legate alle contorte vicende narratevi. È proprio alla stridente contrapposizione tra un’estetica così volutamente scarna e minimale, ma allo stesso tempo violentemente conficcata sottoterra, e le ampollose, ambigue e infide mosse dei personaggi, che il regista affida un ruolo chiave per la comprensione della sua opera. Il linguaggio brutalista infatti, caratterizzato dal cosiddetto “béton brut” (cemento grezzo), nato negli anni Cinquanta e molto popolare fino a tutti gli anni Settanta e oltre, mostra nell’assolutezza delle sue forme imponenti, la propria struttura portante, senza alcun tipo di rivestimento di facciata. Allo stesso tempo, il calcestruzzo diventa quasi l’unico materiale ammesso (spesso in coppia con un legno dall’aspetto altrettanto grezzo), a veicolare un’idea di semplicità, nudità e, perquanto possa risultare strano, trasparenza.

La grezza sincerità, austera e spoglia dell’eremo immaginato per Todo Modo, diventa dunque il teatro ideale per le grottesche vicende di un’umanità che di sincero non ha nulla, oggetto di una critica talmente aspra da attraversare i decenni.

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