Cambogia, morto l’ideologo di Pol Pot

In questi giorni dominati dalla crisi climatica (con le immagini impressionanti dei fiumi che scorronno sul Permafrost in Groenlandia – il frigorifero del Pianeta – e degli incendi di dimensioni apocalittiche che stanno sconvolgendo la Siberia), dalle due stragi compiute in Texas e in Ohio con 31 vittime nello spazio di 13 ore, e dallo scandalo dell’inno di Mameli in versione da spiaggia, ha avuto ampio risalto mediatico anche la notizia della morte in Cambogia di Noun Chea, l’ideologo dei Kmehr Rossi. Un personaggio che ai giovani di oggi dice poco o nulla, uno degli ultimi (due) leader politici del Partito comunista e della “Kampuchea Democratica” ancora in vita ai giorni nostri, che negli anni del genocidio del popolo cambogiano era semplicemente il simbolo del terrore assoluto.

Noun Chea era il numero due dei Khmer rossi, le formazioni partigiane comuniste guidate da Pol Pot, il cui vero nome, Saloth Sar, rimase a lungo un segreto, così come era avvolto da un velo di segretezza inviolabile il legame tra i due massimi responsabili dei Khmer rossi. Condannato all’ergastolo per “crimini contro l’umanità, sterminio e riduzione in schiavitù, torture” e altro dal tribunale speciale di Phnom Pehn, in una sorta di tardivo processo di Norimberga, Noun Chea non ha mai espresso il pentimento per i terribili crimini commessi, soltanto “rammarico”, al pari dei tanti giovani combattenti arruolatisi nei Khmer rossi alla fine degli anni ‘60 – inizio anni ’70, che ancora oggi non sono pentiti dei loro crimini, nella convinzione di aver combattutto per la rivoluzione e per una causa giusta.

Sono trascorsi poco più di quanrant’anni dall’ascesa al potere dei Khmer rossi in Cambogia, un potere durato dal 1975 al 1979, ma quei pochi anni furono sufficienti per sterminare quasi due milioni di persone, un quarto della popolazione cambogiana d’allora. Torture, deportazioni nei campi di lavoro per essere trucidati e finire nelle fosse comuni, massacri senza distinzione di donne e bambini:  eppure la Cambogia non è ancora riuscita – al di là del processo voluto dall’ONU –  a fare i conti con il proprio passato, con quegli orrendi crimini commessi in nome dell’ideologia.

Molti protagonisti dell’epoca hanno affermato di non poter riconoscere gli errori loro attribuiti. In un’intervista di pochi anni fa Thong Thon, che a Phnom Penh lavorava fianco a fianco con Pol Pot (fratello numero 1, deceduto nel 1998 senza essere stato processato) come ufficiale addetto alle comunicazioni e quindi alla macchina propagandistica, ha difeso il “capo” senza tentennamenti. “Lo vedevamo quasi ogni giorno – ricorda -, era un uomo impressionante, carismatico. Parlava con molta delicatezza, ma con modi convincenti. Io credevo alla rivoluzione e anche se ci ripenso ora, trovo quelle idee ancora giuste”. E ancora: “Pol Pot amava il popolo e la Cambogia, merita rispetto”. Frasi che nelle vittime sopravvisute all’ecatombe riaprono ferite mai guarite, un colpo al cuore terribile. Eppure la tragedia del popolo cambogiano, i massacri e le deportazioni sono stati ampiamente dimostrati da ricerche storiche e testimonianze inconfutabili, così come dai giudici del tribunale speciale!

Nuon Chea, fratello numero 2, non si è mai assunto la responsabilità storica dei crimini commessi, negando perfino l’evidenza. “Non voglio che la prossima generazione – disse nel 2011 – fraintenda la storia. Non voglio che credano che i Khmer Rossi siano stati cattivi, criminali”, negando – sotto giuramento – perfino la responsabilità delle fosse comuni, attribuita alle “truppe vietnamite”. Mentre Thong Thon evita le domande imbarazzanti e predica ancora convinzioni: «Avevamo poco tempo, soltanto quattro anni, per realizzare gli obiettivi della Rivoluzione”.

Fortunatamente al potere assoluto dei Khmer rossi fu messo fine nel 1979. Pol Pot voleva cambiare la storia del popolo cambogiano ad ogni prezzo; fedele alla dottrina della vecchia scuola del comunismo proletario della rivoluzione continua, avrebbe voluto creare uno Stato di contadini, autonomo e autosufficiente in un paese allora dominato dall’agricoltura. Con una simile visione delirante mise al bando le altre professioni, in particolare quelle borghesi, dichiarando morte a chi le esercitava. Gli appartenenti alla borghesia, gli intellettuali e gran parte del ceto politico pagarono con la vita, e con quella dei loro familiari, l’appartenenza alla loro condizione.

La morte di Nuon Chea ha riaperto la finestra anche sulle responsabilità storiche della comunità internazionale, in particolare delle potenze mondiali che all’epoca giocavano la partita dei propri interessi nel Sud-Est asiatico e nello scenario tracciato dalla guerra in Vietnam che si stava concludendo con la sconfitta degli americani. Gli USA hanno sicuramente la responsabilità della destabilizzazione economica e militare della Cambogia, trovatasi tra i fuochi incrociati nel conflitto che contrapponeva la potenza americana ai Vietcong. L’avvento di Pol Pot e il conseguente genocidio del popolo cambogiano non sarebbero stati possibili, tuttavia, senza le coperture dettate dagli opposti interessi strategici di Cina e Russia.

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