Cibo, ti odio e ti amo

di Cristina Penco
Disturbi alimentari: è boom di casi. Cause e soluzioni

Identità invisibili, che cercano di attirare lo sguardo dell’altro attraverso la vistosa trasformazione del corpo: esile, talvolta, scheletrico, fino quasi a scomparire, o appesantito al punto da “riempire” lo spazio circostante, deformato nelle situazioni più gravi. In ciascuno di questi casi, la fisicità è un involucro considerato ingombrante. E testimonia tutta la sofferenza di chi lo abita, il senso di vuoto che vite anche molto giovani esprimono attraverso di esso. È ciò che accade a coloro che soffrono di disturbi del comportamento alimentare, che in tempi recenti, nei Paesi occidentalizzati, hanno raggiunto proporzioni epidemiche, con sintomi che compaiono sempre più precocemente.
Nel 2010, in Svizzera, in un’inchiesta differenziata, è stata sondata per la prima volta a livello nazionale l’insorgenza di queste patologie. Lo studio è stato eseguito, su incarico dell’UFSP (Ufficio Federale Sanità Pubblica), dall’ospedale universitario di Zurigo e dall’Università di Zurigo (Istituto di medicina sociale e preventiva). Ne è emerso che, complessivamente, il 3,5% della popolazione elvetica ne è stato colpito nel corso della sua esistenza. L’1,2% delle donne è affetto da anoressia nervosa, il 2,4% da bulimia nervosa e il 2,4% da disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder). Negli uomini, lo 0,2% è anoressico, lo 0,9% è bulimico e lo 0,7% presenta un disturbo da alimentazione incontrollata.
In Italia, invece, in base agli ultimi dati del Ministero della Salute, aggiornati al 2020, sappiamo che i disturbi alimentari riguardano 3 milioni di persone, di cui 2,3 milioni sono giovani, soprattutto di sesso femminile. Il 95,9% sono donne, il 4,1% uomini. Il 15 marzo si celebra la Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla, dedicata alla lotta a queste malattie. Ecco la testimonianza di Laura Dalla Ragione, Psichiatra e Psicoterapeuta, che ha fondato e dirige la Rete per i Disturbi del Comportamento Alimentare della USL 1 dell’Umbria.

Dottoressa, che cosa rimane ancora da mettere a fuoco quando si parla di disturbi alimentari?
«Non è così scontato che anoressia, bulimia e binge eating disorder – tre categorie principali nell’ambito dei disturbi alimentari – siano così riconosciute e riconoscibili sia dalla popolazione generale, sia dagli stessi professionisti della sanità. Oggi noi abbiamo ancora molti problemi per quanto riguarda la diagnosi precoce. Spesso i dottori di medicina generale e ai pediatri di base non sono ancora in grado di riconoscere subito la gravità della patologia».

Con quali conseguenze?
«La prognosi di questi disturbi, che oggi sono assolutamente trattabili e curabili, è complicata dal fatto che i pazienti accedono mediamente sempre troppo tardi alle terapie. Se lo fanno entro il primo anno di storia della malattia, le probabilità di guarigione sono attorno al 90%, soprattutto per quanto riguarda l’anoressia nervosa. Entro i tre anni di storia della malattia la patologia è trattabile, ma con più difficoltà. Dopo i tre anni la malattia è più difficile curare. Dal punto di vista medico questi ultimi casi sono considerati pazienti cronici».

Ulteriori criticità?
«Noto che si fa ancora molta fatica a percepire questa patologia come grave patologia psichiatrica che ha anche un alto tasso di mortalità, sia per quanto riguarda le complicanze mediche, sia per quanto riguarda atti estremi come il suicidio. Dai dati internazionali, per esempio, emerge che una ragazza con anoressia ha sei volte più probabilità di compiere un atto autolesivo».

Quali altri fattori complicano il quadro?
«Le pazienti sono spesso non consapevoli del disturbo e non chiedono aiuto. Negano di avere un problema. Anche per i genitori è complicato capire che sta succedendo qualcosa di grave. In Italia, poi, si riscontra una difficoltà a garantire uniformità di assistenza. La situazione è a macchia di leopardo (si passa da realtà di eccellenza, numerose, come quelle presenti in Lombardia, alla carenza o addirittura assenza delle stesse in Molise, Sardegna, Sicilia, Lazio). Ribadisco che la tempestività dell’intervento è molto importante».

Come si può capire quando un disagio legato all’alimentazione sfocia nella patologia?
«Teniamo conto che il 70% delle giovani ragazze tra i 13 e i 17 anni si sono sottoposte, almeno una volta, a una dieta. Lo scenario contemporaneo presenta un terreno comune in cui, mediamente, tutte le ragazze e i ragazzi subiscono e accettano una certa pressione esterna legata all’immagine corporea. Ma, a parità di stimoli e sollecitazioni, certamente non tutti reagiscono allo stesso modo. Se ci sono elementi traumatici che hanno reso più fragile una personalità, è più semplice che in quel caso si sviluppi un disturbo alimentare. Quest’ultimo si caratterizza, innanzitutto, per un aspetto ossessivo, che deve presentarsi in modo continuativo per almeno due o tre mesi. Chi ne soffre pensa dal mattino alla sera a come fare per perdere peso, che, anche in altre forme del disturbo, è comunque al centro delle preoccupazioni quotidiane».

Altri campanelli di allarme?
«A parità di aumento o perdita di peso si nota un vistoso cambiamento di carattere. Alcuni ragazzi, da solari ed estroversi, diventano aggressivi e chiusi, come se il mondo intorno si spegnesse. In questi casi sarebbe opportuno che un genitore facesse fare a un figlio o a una figlia una visita specialistica per escludere o meno che ci sia quel problema. Terzo punto è l’alterazione dello schema corporeo: ci si vede grassi anche quando si è magri o magrissimi».

Un dato che coincide tra la situazione svizzera e quella italiana è l’abbassamento dell’età in relazione agli episodi d’esordio dei disturbi alimentari. Si parla di bambine di 12-10 anni, in certi casi addirittura di 8 anni.
«Torniamo al discorso di partenza. Spesso i pediatri non pensano immediatamente che un dimagrimento, una perdita di peso possano essere associati a un’anoressia nervosa. L’abbassamento dell’età nelle manifestazioni del malessere era un trend già presente negli ultimi cinque anni. È stato aggravato dal lockdown, che in Italia ha fatto registrare un aumento del 30% netto di casi. È un incremento importante, che riguarda principalmente, nella Penisola, i preadolescenti al di sotto dei 14 anni. Questi disturbi interpretano in modo molto efficace il disagio contemporaneo. Sono forme nuove e moderne di depressione, in un’epoca in cui adolescenti e preadolescenti sono molto stimolati, su corpo e alimentazione. Sono elementi di grossa pressione cognitiva, sociale. Questo fa sì che facilitino l’ingresso in un quadro che quindici anni fa sarebbe stato ricondotto a una depressione o disturbo d’ansia, ma oggi sfocia nei disturbi alimentari».

Non è più un problema prettamente femminile.
«Dieci anni fa i maschi incidevano per l’1% sulla popolazione ammalata. Attualmente rappresentano il 10%. Nella fascia tra 12 e 17 anni sono il 20%. Sono aumentati tantissimo. Probabilmente nei prossimi dieci anni non si parlerà più di disturbo di genere. Anche i maschi hanno lo stesso tipo di pressione su immagine corporea e alimentazione: ai nostri giorni, soprattutto nell’adolescenza, si depilano, si tatuano, si mettono i piercing. In generale, nell’epoca contemporanea, il corpo è un teatro, è un canale per comunicare al mondo. Sul corpo di gioca una partita che è la partita dell’identità».

I social fanno da amplificatore?
«Moltissimo. Le nostre pazienti bambine di 10-12 anni seguono Instagram e Tik Tok, hanno un mondo di riferimento completamente diverso da quello delle loro coetanee di pochi decenni fa. Una nostra ragazzina di 13 anni, ricoverata, ha pubblicato online un video che ha girato in ospedale esibendo il sondino nasogastrico, che le permette di essere nutrita artificialmente, come se fosse stato un trofeo, facendo una specie di balletto con la flebo attaccata all’apparecchio. Allo stesso modo possono essere mostrati sui social, con orgoglio, atti di autolesionismo, per esempio tagli più o meno superficiali, collegati ai disturbi del comportamento alimentare».

Come si affrontano questi problemi a livello terapeutico?
«
La comunità scientifica internazionale concorda sul fatto che questo è un disturbo che va affrontato a 360 gradi con un approccio psicologico e nutrizionale allo stesso tempo. Non sono patologie che possano essere trattate da un singolo specialista, seppur bravo, bensì hanno la necessità di un approccio globale alla persona. Sono disturbi che riguardano contemporaneamente la mente e il corpo, dunque vanno aggrediti da ambedue questi versanti, per rimettere insieme l’unità mente-corpo che si è separata».

Esistono diversi livelli di intervento?
«
Il 60% delle pazienti può essere trattato dal punto di vista ambulatoriale, il più lieve, per chi è agli inizi della malattia. Possono esserci ottimi risultati. Poi c’è il livello semiresidenziale, dove le pazienti si recano in un centro, fanno pasti assistiti e poi tornano a casa. In quello residenziale si parla di una permanenza nella struttura dai tre ai cinque mesi. Infine c’è l’assistenza ospedaliera, il ricovero salvavita, con la nutrizione artificiale per pazienti che si ostinano a rifiutare cibo e si aggravano. Una o un paziente possono anche sperimentare tutti e quattro i livelli nell’arco del percorso terapeutico a cui è sottoposta o sottoposto».

Quanto tempo occorre in media?
«Sono patologie che, proprio per la loro forte componente psicologica, hanno bisogno di terapie lunghe. Occorrono almeno due anni di trattamento ambulatoriale. La guarigione non è solo quella clinica legata al recupero del peso. Bisogna lavorare anche sul piano psicologico per sradicare il nucleo ossessivo, altrimenti il disturbo si ripresenterà».

Si può guarire?
«Si guarisce assolutamente. Non c’è mai un caso in cui si può dire che non c’è nulla da fare. Personalmente ho curato migliaia di pazienti. Moltissime di loro, in seguito, hanno fatto loro vita, si sono laureate e si sono sposate. Ovviamente dipende molto dalla precocità dell’intervento. Se riusciamo a intercettare il paziente entro il primo anno di insorgenza della malattia, abbiamo una probabilità di guarigione del 90%. Oggi, inoltre, le terapie sono molto specializzate. Possiamo avere davvero grosse speranze per tantissimi giovani». 
[Laura Dalla Ragione è anche Docente al Campus Biomedico di Roma, come titolare del Corso sui Disturbi del Comportamento Alimentare. Presidente della Società Scientifica per la riabilitazione nei DCA SIRIDAP. Direttore del Numero Verde Nazionale SOS Disturbi Alimentari della Presidenza del Consiglio e dell’Istituto Superiore di Sanità].

I DISTURBI ALIMENTARI

ANORESSIA
Caratterizzata clinicamente da un elevata perdita di peso fino al raggiungimento di un peso corporeo molto basso, ottenuto attraverso un regime alimentare ipocalorico accompagnato da attività fisica eccessiva o dal vomito autoindotto o dall’uso di lassativi o diuretici.

BULIMIA
Durante le abbuffate compulsive vengono assunte grandi quantità di cibo con perdita di controllo e nella maggior parte dei casi questi episodi bulimici sono seguiti da meccanismi di compenso come l’uso di lassativi, il vomito, la dieta rigida, l’esercizio fisico compulsivo.

BINGE EATING
Disturbo da alimentazione incontrollata contraddistinto da abbuffate analoghe a quelle della bulimia, ma che non vengono seguite da pratiche di eliminazione o compensazione. Chi ne è affetto è quasi sempre obeso o in notevole sovrappeso e soffre psicologicamente per questa condizione.

VIGORESSIA o BIGORESSIA
Culto ossessivo della forma fisica e del volume muscolare, da mantenere con diete esagerate e spesso squilibrate e con allenamenti estenuanti in palestra.

ORTORESSIA
Disturbo di cui soffre chi, nell’intento di ottenere una dieta che sia il più possibile sana, con un comportamento di tipo ossessivo finisce invece per ottenere l’effetto opposto.
(Fonti: Ministero della Salute italiano, Humanitas Mater Domini, Harmonia Mentis, Istituto Auxologico)

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