Come l’Italia ridurrà la dipendenza dal gas russo

di Marco Nori, CEO di ISOLFIN

C’è una regola aurea per cui il mercato predice il futuro ma nessuno capisce i suoi segnali. È dall’ottobre scorso che i prezzi del gas sono aumentati improvvisamente, come se gli investitori percepissero il terreno tremare sotto la Russia, ed è bastato aspettare qualche mese per vedere l’Europa Orientale incendiarsi.

Nel momento dell’invasione russa in Ucraina, l’Europa si è svegliata terrorizzata e consapevole di essere preda di un unico temibile fornitore di energia, la Russia, che a sua volta si è resa conto che le sue finanze dipendono da un solo ricco cliente, l’Europa. Alla fine, la Russia non ha chiuso i rubinetti e l’Europa ha continuato a pagare e ricevere regolarmente le forniture di gas e petrolio, ma il nostro continente si è reso conto di essere ricattabile.

Non si piange sul latte versato, ma non si può nemmeno chiudere gli occhi sul fatto che sapevamo già cosa stesse accadendo nel 2014, quando la Russia ha di fatto annesso la Crimea, e la questione è stata liquidata in pochi mesi e senza conseguenze, tanto che la Germania ha continuato imperterrita con il Nord Stream 2 che l’avrebbe resa ancora più in balia della fornitura di energia russa. Ora che ci si è resi conto che l’ambizione di normalizzare i rapporti con la Russia e portarla nell’ombrello dell’economia e dei valori europei è fallita, occorre attrezzarsi di conseguenza, e in fretta.

L’Italia, insieme alla Germania, è uno dei paesi più esposti: ben il 43% del gas bruciato nella penisola viene dalla Russia. E il governo di Draghi sta cercando soluzioni per ridurre almeno in parte questa dipendenza. La prima strategia è stata quella più ovvia: perché non usare i giacimenti in Italia? La risposta breve è che non ce n’è abbastanza: l’Italia brucia circa 70 miliardi di metri cubi di gas l’anno e la stima dei giacimenti in Italia è di 90 miliardi in totale, poco più del fabbisogno di un anno. Ma siccome ogni pezzetto aiuta, dall’estrazione attuale di poco più di 3 miliardi di metri cubi l’anno dai giacimenti nei nostri confini, il piano è quello di arrivare almeno a 7 o 8 miliardi. Sembra poco, tutto aiuta. Questo aumento ha tempistiche che vanno dai 12 mesi ai 3 anni; quindi, gli effetti (limitati) si vedranno solo il prossimo anno, e non è detto che tutto andrà secondo i piani perché alcuni giacimenti potrebbero non avere le autorizzazioni: per esempio le attività di estrazione nell’area di Venezia sono estremamente regolamentate per un temuto rischio di abbassamento del suolo in una zona così delicata. Altri fattori ambientali potrebbero ostacolare o ritardare l’estrazione perché se a livello di principio siamo tutti concordi nello sfruttare i giacimenti italiani, poi si è spaventati quando l’estrazione è accanto a casa propria.

Per aumentare in maniera più significativa e immediata la fornitura di gas occorre cercarlo dove ce n’è di più e dove già viene estratto attivamente. Per questo motivo abbiamo visto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi in viaggio in molti paesi per cercare nuovi accordi sull’importazione del gas naturale. L’inedita coppia si è recata in Algeria, in Qatar, nella Repubblica del Congo e in Angola. Nel 2021, questi paesi hanno contribuito non poco alla fornitura di gas all’Italia: l’Algeria il 31%, il Qatar per il 9% a cui si sommano anche l’Azerbaigian per il 10% e la Libia per il 4%.

L’Algeria si è dimostrata subito interessata ad aumentare la sua quota, e l’Eni si è offerta subito di impiegare investimenti e tecnologia per aumentare l’estrazione e c’è già un gasdotto disponibile, il TransMed o “Enrico Mattei”, che può portare fino a 30 miliardi di metri cubi l’anno. Queste sono cifre che fanno la differenza, e probabilmente saranno disponibili entro pochi mesi. C’è un altro gasdotto che potrebbe fare la differenza, il famigerato TAP che arriva dall’ Azerbaigian, ma la sua capacità è di 9 miliardi l’anno e per ampliarlo a 20 ci vorranno almeno tre anni, senza contare gli ostacoli ambientali. Gli altri paesi con cui Di Maio e Descalzi stanno trattando, il Qatar e il Congo, hanno grandi capacità produttive ma non abbiamo gasdotti disponibili e occorre liquefarlo per trasportarlo, il GNL, per poi gassificarlo in Italia, dove ci sono solo 3 impianti. Inoltre, in Congo occorre anche costruire un impianto per la liquefazione, che prenderà tempo.

Le previsioni più realistiche parlano di riduzione (non eliminazione!) della dipendenza dal gas russo in 2 o 3 anni. E un ruolo importante lo giocheranno gli stoccaggi che vengono fatti in estate, quando di gas se ne consuma meno: l’Unione Europea chiederà ai paesi membri che gli stoccaggi siano minimo al 90% della capacità massima, mentre l’Italia è partita l’estate scorsa con l’80%. Quest’anno sarà giocoforza fare meglio.

Fin qui arriva la strategia nazionale, europea e globale, ma per essere in condizione di ridurre in modo netto le importazioni di gas russo entro un anno, un organismo europeo ha fornito un decalogo di “buoni comportamenti” che tutti i paesi dovrebbero adottare per ridurre il consumo di gas. In questo decalogo spicca una voce: abbassare di un grado la temperatura del riscaldamento domestico. Mettersi un maglione in più e ricordarsi che di notte si dorme meglio con una temperatura più bassa, tra i 15 e i 19 gradi.

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