Culle vuote. Non si fanno più figli

Di Cristian Repetti

Nel computo dei dati dell’anno appena finito, ce n’è uno che spicca su tutti, in Italia. Per la prima volta, i nati nel Belpaese a fine 2021 sono destinati a scendere al di sotto della soglia dei 400 mila bebè. Secondo i dati provvisori di gennaio-settembre, le minori nascite sono già 12.500, quasi il doppio rispetto a quanto osservato nello stesso periodo del 2020. Un nuovo, e ben poco positivo, tassello che si aggiunge al più ampio quadro del declino demografico della Penisola, in atto da tempo. Nella Confederazione, dove la situazione è diversa, intanto, si diventa genitori sempre più tardi.

Negli ultimi 12 anni in Italia si è passati da un picco relativo di 577 mila nascite alle 404.892 del 2020, annus horribilis della pandemia: il 30% in meno. Il numero medio di figli delle donne di cittadinanza tricolore, sempre nel 2020, è stato pari a 1,17: il più basso di sempre. E ora si rileva un ulteriore decremento, dovuto, come spiegano gli esperti, alla seconda ondata di Covid-19 tra ottobre-novembre 2020. Secondo Gian Carlo Blangiardo, nonché professore emerito di demografia, dal 2019 alla guida dell’Istituto Nazionale di Statistica (Istat), l’anno in corso si chiuderà con una forbice che oscilla tra le 385 e le 395 mila nascite. Già da due anni la popolazione italiana è numericamente retrocessa e, dai 60 milioni di individui che contava, se i numeri continuano di questo passo, si avvierà rapidamente verso i 59 milioni.

L’IMPATTO SUL PIL

A fronte dell’aspettativa di vita, al momento di venire al mondo, di circa 80 anni – ha sottolineato ancora Blangiardo – a oggi 400 mila nascite sono compatibili con una popolazione che nel lungo periodo è destinata a fermarsi a poco più di 30 milioni, non agli oltre 59 come è adesso. «Il sistema politico e quello economico devono muoversi per tempo, altrimenti la prospettiva per l’Italia non è solo l’invecchiamento generale della popolazione, di cui si parla tantissimo, ma alla fine sembra che non sia un vera emergenza, ma anche un serio rischio per la nostra economia», ha commentato il presidente dell’Istat. Il prodotto interno lordo è misurato mettendo in relazione la produttività, l’occupazione, la partecipazione al mercato del lavoro, la struttura demografica e la popolazione. In base alla simulazione delineata da Blangiardo in un’intervista al “Sole 24 Ore”, ipotizzando che tra il 2020 e il 2040 la popolazione scenda di circa quattro milioni, secondo le cifre rilevate ogni anno, il Pil scenderebbe del 6,9%. Se poi si immagina che scenda anche la popolazione in età attiva – a condizioni generali invariate nelle altre componenti, tra cui la produttività – allora il calo del Pil potrebbe arrivare addirittura al -18,6%. «Possiamo dire che questo genera un paradosso: l’aumento della vita media porta sempre più futuro per ognuno di noi singolarmente, ma sempre meno per tutti noi insieme».

MOLTE DIFFICOLTÀ

La lieve ripresa della fecondità registrata a cavallo del nuovo millennio è stata fermata dalla crisi iniziata nel 2008, che ha colpito particolarmente le generazioni più giovani. Queste ultime incontrano numerose difficoltà nel formare una famiglia anche a causa degli ostacoli che devono affrontare nel mercato del lavoro – prima per entrarci, poi per rimanere “a galla” in un contesto estremamente frammentato e precario – cercando di assicurarsi redditi dignitosi e sicuri. Le criticità riguardano sia uomini sia donne. Per le seconde, poi, si aggiungono i rischi legati alla maternità che potrebbero profilarsi in ambito professionale, stante la situazione attuale: il mancato rinnovo di un contratto per le lavoratrici dipendenti, l’eventuale demansionamento al rientro in fabbrica o “alla scrivania”, o ancora perdere incarichi e clienti se è una libera professionista. La diffusione di rapporti di lavoro temporanei, purtroppo, ha aumentato il numero di quelle che non hanno accesso all’indennità, o che vi hanno diritto solo in misura irrisoria. A tutto ciò si aggiunga la difficoltà di conciliare le esigenze familiari con quelle lavorative. Secondo i dati dell’Ispettorato del lavoro, oltre il 70% di chi lascia volontariamente il lavoro lo fa a causa della difficoltà a conciliarlo con la maternità. A fare più spesso figli sono, oggi, le donne in Italia tra i 35 e i 39 anni rispetto a quelle tra i 25 e i 29 anni: man mano che si stabilizzano nel mercato del lavoro e migliorano il proprio reddito possono affrontare con maggiore serenità i rischi, e i costi, di un figlio, o di un pargolo in più.

POSSIBILI AREE DI INTERVENTO

Alla base della crescente denatalità in Italia manca soprattutto un ambiente favorevole per chi fa figli. In molti Paesi europei, come la Germania e gli Stati dell’ex Est, sono state attuate politiche che hanno invertito il trend. Ma, come indicano gli esperti, gli interventi non devono avere natura assistenziale, bensì demografica. Un primo aspetto è legato ai costi. La Legge Delega 46/2021, secondo i piani del Governo Draghi, è una misura economica a sostegno delle famiglie con figli a carico ed entrerà in vigore dal 2022. Varrà dal settimo mese di gravidanza fino al compimento del 21esimo anno di ogni figlio fiscalmente a carico. Provvedimenti come questo e il congedo di paternità (con una durata ampliata, per il 2021, da sette a dieci giorni), vanno nella giusta direzione, ma non bastano. Altri punti importanti su cui pongono l’accento gli esperti sono più reti sociali e strutture disponibili e un cambiamento culturale nel mondo del lavoro. Oltre all’intervento statale, occorre un maggiore coinvolgimento del mondo imprenditoriale e aziendale, affinché si ragioni sempre più collettivamente in ottica di welfare per la comunità. Terza dimensione su cui porre il focus è quella delle famiglie immigrate, che per anni hanno permesso di non far scendere eccessivamente il tasso di natalità in Italia. Già in epoca pre-Covid, però, la tendenza aveva registrato una battuta d’arresto. Prima della pandemia, infatti, una ricerca curata dall’Amsi (Associazione medici di origine straniera in Italia) in collaborazione con Claudio Manna, ginecologo ed esperto di infertilità nonché docente a Tor Vergata in tecniche di Fecondazione assistita, aveva mostrato che nelle donne italiane il numero di figli/donna era calato da 1,32 a 1,27 (-0,05) mentre nelle straniere era sceso da 2,36 a 1,94 (-0,42) cioè 10 volte di più. Affinché arrivi un contributo alla società anche dalle coppie straniere, anche per questo occorre che l’immigrazione venga regolata e ci siano strutture di reale accoglienza, in modo che sia funzionale anche al sistema-paese.

LA SITUAZIONE IN SVIZZERA

Alla fine del 2020, la popolazione residente permanente nella Confederazione elvetica ha raggiunto 8.670.300 persone, con un aumento di 64.300 unità (+0,7%) su base annua. Il Ticino è uno dei rari cantoni in cui la popolazione è diminuita. Un calo è stato registrato anche a Neuchâtel e in Appenzello Esterno. Lo ha indicato l’Ufficio federale di statistica (UST) pubblicando i dati definitivi sull’evoluzione della popolazione lo scorso anno. Turgovia, Vaud, Argovia e Friburgo hanno mostrato le crescite demografiche più rilevanti: +1,2% rispetto all’anno precedente. Almeno tre sono i fattori principali alla base di questo scenario. Il saldo migratorio internazionale – la differenza tra il numero di persone giunte dall’estero e quello di persone partite dalla Confederazione nel corso di dodici mesi – è il primo e risulta di +53.800 persone. Il parametro ha favorito l’aumento della popolazione in tutti i cantoni. Basilea Città, Vaud e Ginevra presentano i saldi migratori internazionali più elevati rispetto alla loro popolazione (rispettivamente del 13,4‰, 9,9‰ e 9,3‰). Appenzello Esterno ha invece il più piccolo saldo per 1000 abitanti (3,0‰). Questo valore per la Svizzera si attesta al 6,2‰. Altro fattore di crescita è l’incremento naturale – ossia la differenza tra il numero di nascite e di decessi – che è pari a 9.700 persone. Zurigo, Zugo e Friburgo hanno visto gli incrementi naturali più elevati rispetto alla loro popolazione (rispettivamente del 3,0‰, 2,9‰ e 2,5‰). In Ticino, Giura, Glarona, Neuchâtel, Sciaffusa, Basilea Campagna, nei Grigioni, Basilea Città e a Berna si sono registrati, invece, più decessi che nascite. Per la Svizzera, questo valore è dell’1,1‰. Infine, a livello cantonale giocano un ruolo importante anche le migrazioni interne al Paese. Friburgo, Svitto e Appenzello Interno presentano i saldi più elevati (rispettivamente 5,3‰, 4,9‰ e 4,6‰). Tra i cantoni con un saldo migratorio interno negativo, invece, figura Basilea Città (-8,7‰, il tasso più basso).

SI DIVENTA GENITORI TARDI

In territorio elvetico molte donne decidono relativamente tardi di fare un figlio. In media, nella Confederazione una donna ha il primo figlio all’età di 30,9 anni. Vent’anni fa, questa media era ancora di 28,3 anni. Secondo i dati del Max Planck Institute e dell’Università di Vienna, negli ultimi decenni l’età delle madri alla nascita del primo figlio si è innalzata in tutti i Paesi dell’OCSE. In questi ultimi, nel 2016, la media complessiva era di 28,9 anni, ma solo in Spagna era superiore a quella in Svizzera. Le coppie in territorio elvetico non solo hanno figli tardi, ma ne hanno anche pochi. Nel Paese elvetico la media è di 1,52 figli per donna, una cifra che è rimasta relativamente costante dal 1990. Le donne straniere residenti nella Confederazione hanno in media più figli delle svizzere. Tuttavia, allo stesso tempo va notato che, nel confronto con gli altri Paesi europei, la Svizzera non occupa le ultime posizioni nella classifica dei tassi di natalità. Secondo i dati del Wittgenstein Centre for Demography di Vienna, in altri sedici Paesi europei le donne hanno ancora meno figli: Lussemburgo (con una media di 1,4), Grecia (1,38), Italia (1,34, in linea con la Spagna) e, all’ultimo posto, Bosnia-Erzegovina (1,26).

IL LUSSO DI AVERE UN FIGLIO

Quali sono i motivi per cui, anche in Svizzera, si diventa genitori sempre più tardi, e altrettanto spesso si rimane – pure involontariamente – senza figli? Lo ha spiegato bene Bettina Isengard, docente di sociologia all’università di Zurigo, delineando un contesto che effettivamente si riscontra un po’ in tutti i Paesi occidentali. Una formazione accademica richiede diversi anni, perciò l’età in cui si crea una famiglia è rinviata. La scelta del partner è cambiata nel corso dell’ultima o delle ultime due generazioni. Soprattutto il genere femminile è diventato più esigente rispetto alla scelta di un partner, in cerca di una persona adatta a portare a compimento i propri progetti familiari. Un altro motivo del basso tasso di fertilità, secondo la sociologa, è la situazione dell’accudimento dell’infanzia in Svizzera. Il congedo di maternità è relativamente breve. E un congedo di paternità di due settimane, come è stato deciso in tempi recenti, non è un aiuto sufficiente. Inoltre, non vi è alcun congedo parentale. Così, per molte, la nascita di un figlio implica interrompere la carriera. Rispetto a un confronto con la situazione internazionale del settore, il costo dei servizi di accudimento dell’infanzia, nel territorio elvetico, è molto elevato, malgrado i sussidi, a fronte del fatto che molte coppie non si sentono finanziariamente sicure. In generale, avere un figlio è quasi un lusso in Svizzera. Secondo uno studio dell’Ufficio della gioventù di Zurigo, un bambino costa da 1.200 a 1.800 franchi al mese in base all’età. Il salario medio è di 6.500 franchi lordi. Quindi un figlio costa dal 18 al 27% del salario lordo di un genitore. E non tutti possono permetterselo.

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