Dal “Ne prendiamo zero” a “mai preso un rublo”, storia di un linguaggio che cambia la politica.

E’ il 2007 quando Drew Westen, docente presso il dipartimento di psicologia della Emory University e consulente politico del partito democratico, dà alle stampe “The political brain”, un saggio in cui analizza i meccanismi consci e inconsci di voto degli americani. Vuole dimostrare, in buona sostanza, che le campagne politiche dei democratici parlano alla parte sbagliata del cervello, mentre i repubblicani hanno capito da tempo che la politica è soprattutto “una questione di racconto”. Niente “regole del pollice”, niente calcoli sull’utilità attesa. Nel conflitto tra ragione ed emozione, nella mente dell’elettore, è sempre l’emozione ad avere la meglio.  Non si eleggono i leader in base ai programmi, ma in base a domande di carattere esclusivamente emotivo: Cosa provo verso un partito? Come mi fa sentire il candidato? Che impressioni ho sulle sue qualità personali? Che sentimenti provo verso le sue posizioni?

Dodici anni sono passati da quel momento. Eppure, la lezione non sembra esser stata sufficientemente recepita. E’ il 22 febbraio 2013 quando Pierluigi Bersani, candidato premier per la coalizione di centro-sinistra “Italia Bene comune” chiude la campagna elettorale nella Capitale. “Come si sente segretario?” – chiede un giornalista. “Sono stanco”, risponde il leader del Pd “perchè con le primarie la campagna elettorale è stata molto lunga”, rivelando una fragilità umana comprensibile, ma non esattamente efficace come linguaggio politico.

Il risultato elettorale consegnerà un Paese instabile con una risicata maggioranza del centro-sinistra alla Camera e la totale ingovernabilità al Senato, grazie all’exploit del Movimento 5 Stelle. Bersani si dimetterà e sarà Matteo Renzi, dopo la breve parentesi di Enrico Letta, a raccoglierne l’eredità, sconvolgendo con la propaganda della “rottamazione senza incentivi”, la tradizione delle campagne elettorali targate Pd, abortendone l’ambivalenza a favore di un racconto persuasivo, rafforzato da una personalità forte, fondato su principi e non su singole questioni. Rivelatrice, a riguardo, la risposta del premier al giornalista Enrico Mentana, nel luglio 2017: “Risponda agli elettori” – incalza il giornalista. “Lei, dopo il voto, quali alleanze esclude?”, Renzi replica: “Io le dico che voglio vincere le elezioni. E per vincerle devo parlare il linguaggio degli elettori, non di voi giornalisti che parlate da mattina a sera dell’acquario dei partiti”.

Comunicazione efficace, risultato elettorale no! Il 4 marzo 2018, la debacle del Pd consegna il governo del Paese all’asse 5Stelle-Lega.

Ma è il vicepremier Matteo Salvini a imporsi prepotentemente sulla scena mediatica, con un linguaggio che – per la prima volta – abbatte la distanza tra narrazione social e comunicazione istituzionale, facendo di un sol boccone la mediazione dei corpi intermedi. Dal “ne prendiamo zero” stizzito con cui risponde alla domanda su dove sarebbero finiti i naufraghi della Diciotti il 20 agosto scorso, al “mai preso un rublo” con cui chiude la porta in faccia alla querelle sui presunti fondi russi alla Lega, il ministro degli Interni conserva anche la leadership dell’efficacia comunicativa. A Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, per la fine della campagna elettorale per le europee, da ministro, saluta il pubblico. “Ho scelto di chiudere la campagna qui a casa, tra amici, nell’Emilia sempre meno rossa e sempre più libera”. In provincia di Piacenza la Lega otterrà un record assoluto, con il 45,3 per cento dei voti.

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