Daverio e la trigonometria dello spirito

di Alessandro Sandrini

Philippe Daverio ci ha lasciato il 2 settembre scorso. Era nato a Mulhouse nel 1949 da padre italiano e madre alsaziana. Diceva di non essere del tutto italiano, ma solo in parte, un “prodotto d’importazione italianizzato con convinzione”, come lui teneva ad assicurare. Uno dei suoi ultimi libri lo ha dedicato alla moglie Elena “che ha avuto l’eccellente idea di renderlo definitivamente italiano per matrimonio”.

Aveva frequentato la Scuola Europea di Varese, poi nel 1968-69 la facoltà di Economia e Commercio all’università Bocconi senza laurearsi.

Philippe Daverio è stato mercante e storico dell’arte, politico e personaggio televisivo, ordinario di Disegno Industriale all’Università di Palermo e insegnante alla Facoltà del Design al Politecnico di Milano. Ha diretto varie riviste d’arte e collaborato con molte testate; ha curato mostre ed eventi; è stato autore di Passepartout, programma d’arte e cultura di Rai Tre, di sketch televisivi che hanno avvicinato un pubblico variegato non solo all’arte, ma al paesaggio culturale italiano e straniero. 

Viene definito storico dell’arte, anche se in realtà il suo approccio culturale semiologico gli permetteva di avere una visione crossover del mondo. 

Daverio aveva voglia di raccontare, con quel particolare tipo di affabulazione che negli anni, soprattutto nelle sue apparizioni televisive, incuriosiva anche i più refrattari, incitandoli a guardarsi intorno, a viaggiare perché “il viaggio è come la vita: si spera che non finisca mai. Purtroppo talvolta finisce l’esistenza, mentre il viaggio può essere ripreso anche dagli altri”. Aveva così voglia di raccontare che non disdegnava interventi in trasmissioni satiriche e di incontrarsi pure con il Gabibbo e con lui parlare di Picasso.

Scriveva libri sull’Italia. Giustificava questo suo attaccamento perché la qualità dell’eredità storica dell’Italia è tale che “se uno la guarda con affetto ritorna l’entusiasmo”, anche in tempi bui.

Per lui l’Italia straordinaria è l’Italia minore, quella che il suo amico Antonio Paolucci definiva come “museo diffuso”: basta vedere una cosa, guardarla a fondo, e questa racconta molto di più di tante altre cose viste superficialmente in rapida sequenza. Era un fautore dello slow tourism, come dello slow food, uscendo dai percorsi ufficiali e andando a spasso. A Venezia non si è obbligati a fare la fila per entrare a San Marco; lo si può vedere anche da fuori, dove, all’angolo del tesoro di San Marco, si può fare, “aggratis”, un “saluto ai Tetrarchi che raccontano la storia del Mediterraneo”.

La linea più breve tra due punti in Italia è l’arabesco” era una frase di Ennio Flaiano che ogni tanto Daverio citava e che ben illustra il suo atteggiamento, o, meglio, il suo corteggiamento verso le cose, l’arte e la vita.

Ammetteva candidamente una sua arabesca lentezza, soprattutto a Milano dove viveva. Tuttavia qualche volta si svegliava all’alba, quando se ne stava in campagna in Maremma. Diceva che non c’era niente di più bello che vedere il sole che si alza dietro i monti e va a correre verso il mare. La Maremma aveva per lui questa magia: “che il sole va ad addormentarsi nelle acque”. Ma a Milano, soprattutto d’inverno, amava stare a letto sotto le coperte fino a tardi, mentre tram e rumori cittadini inondavano le strade; poi faceva un’abbondante colazione, perché al mattino si digerisce meglio (raccomandava l’aringa con la crema acida e marmellate al mattino; assolutamente niente alcolici); infine una lunga lettura dei giornali che, secondo lui, era sì, fuori moda, ma psichicamente utile anche per prevenire l’Alzheimer. Leggeva giornali spagnoli, francesi, inglesi, tedeschi e qualche giornale italiano; con distrazione, diceva lui, non a fondo, perché i giornali vanno innanzitutto annusati. Consigliava la lettura di alcune riviste come il Nouvel Observateur, il New Yorker, della stampa americana in generale, che riteneva libera, e Der Spiegel, “perché scrive cose importanti”. “Leggere in varie lingue evita di rimbambire. Se uno non le sa, le può sempre imparare: a qualsiasi età siamo suscettibili di essere imparanti, e se siamo imparanti siamo anche svegli. E se siamo svegli e imparanti, siamo anche suscettibili di diventare intelligenti”.

Oltre alle lingue ufficiali, Daverio amava anche i dialetti. La sua lingua materna, l’alsaziano, “una specie di svizzero tedesco e che sembra un mal di gola con alcune parentele col bergamasco”, non era per lui importante. Gli piaceva il veneziano e soprattutto il milanese, insomma, i dialetti in generale, perché costituiti da una stratificazione semantica straordinaria. Il Brot und Wurst, simbolo del proletariato germanico, nella traduzione italiana pane e salsiccia non ha lo stesso valore. Ma se in milanese si dice “Ed umana roba che val la pena de viv’, ed umana roba l’è il pan e salam… Pan e salam vuol dire molto”. Come pane e cipolla in Toscana.

Alcuni anni fa Daverio e alcuni amici inventarono la sigla “Save Italy”.  Con un gruppo di amici e un po’ di aiuto televisivo, aveva organizzato un’adunata a Tivoli per evitare che vicino alla Villa Adriana fosse costruita un’enorme discarica. Sembrava una goliardia, ma ebbe un effetto clamoroso: la discarica fu evitata e Tivoli fu salvata. Tuttavia Daverio riteneva che ciò non bastasse, e che Tivoli, come l’Italia intera, avesse bisogno di una ri-pianificazione urbanistica seria e rispettosa della sua storia e della sua essenza culturale.

Sosteneva che cento anni fa l’Italia fosse il Paese più bello d’Europa, ma anche il più povero. Oggi è un Paese molto più agiato, ma molto meno bello. Così Daverio rispolverava la dialettica hegeliana, auspicando una sintesi perfetta: rimanere agiati e tornare a essere belli, perché l’Italia potrebbe diventare guida per il mondo e sostanzialmente fornire anche un’agiatezza che va dallo stile di vita alla qualità della vita, e da questa alla densità della proposta culturale che potremmo emanare sul mondo.

Non è solo una questione di diffusione del bello, ma, come teneva a precisare, di pitagorica armonia del mondo che si rispecchia nella cultura.

“La cultura serve a capire l’altro, e ciò genera solidarietà”. In un intervento a margine del convegno Il sapere al servizio della solidarietà tenutosi a Palazzo Farnese nell’aprile del 2018, Daverio spiegava la sua idea sul binomio cultura e solidarietà. A questo proposito, citava una massima della letteratura francese del Cinquecento che recita: “Sapere senza avere e generare coscienza non è altro che una rovina dell’anima”. Su queste basi, si deve immaginare a cosa serva la cultura e a cosa serva per capire l’altro. Solo se si capisce l’altro può nascere la solidarietà. Essa esiste solo in un momento di coesistenza. La coesistenza passa attraverso il conoscere l’altro e capirne i parametri culturali. L’accumulo culturale è dunque importante; addirittura l’uso di lingue diverse da quella patria è estremamente utile, perché ogni lingua è un punto di vista, e tanti punti di vista generano una sorta di trigonometria dello spirito. Senza la trigonometria mentale non si può capire”.

Che la terra ti sia lieve, Philippe.

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