Della fragilità, linguaggio. Dell’invisibile, forma

Marisa Merz alla Collezione Giancarlo e Danna Olgiati di Lugano

di Chiara Gubbiotti

Marisa è stata una donna riservata come riservata ne è stata l’arte.

La sua produzione è un racconto biografico e familiare, che ti entra dentro in punta di piedi e senza far rumore: autoreferenziale sempre ma mai in maniera esplicita.

Marisa nasce a Torino ma da quale famiglia lo sanno in pochi: per tutta la vita usa sempre il cognome di suo marito Mario per identificarsi; una scelta interessante se si pensa al tipo di arte che questa donna piemontese ha prodotto durante la sua lunga esistenza. Difatti Marisa nella sua arte rimane autonoma e personalissima: produce ciò che sente e ciò che vive.

Trasforma in opera il suo essere donna, il suo essere mamma e il suo essere artista: il concetto di dimensione privata e il quotidiano si fanno rappresentazione simbolica e poverista nella scelta dei materiali insoliti, spesso casalinghi o associati ad una dimensione domestica prettamente “femminile”.

È cosi che nascono le scarpette in filo di rame costruite sui piedi dell’artista che corrispondo alle “sue misure, alle sue possibilità” o le teste di donna abbozzate nella terracotta i cui tratti somatici sono appena accennati. È cosi che nasce la frase autografa che funge da sottotitolo alla mostra e che l’artista scrisse su una delle pareti della sua casa sabauda: Geometrie sconnesse, palpiti geometrici. Ed è proprio nella frase autografa che si ritrova la Marisa più profonda, quella divisa tra razionalismo e emotività, tra solitudine e protagonismo.

Marisa è musica, è ricordo, è linguaggio, è volto, è forma: quale sia stato il suo vero aspetto nessuno lo saprà mai veramente: forse il vero volto di Marisa è nei suoi mille volti e questa mostra ci permette di vederli tutti.

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