Digitalizzazione: ci vuole logica! E ci vuole cultura

Saranno circa 2 miliardi in tutto il mondo, e nel 2025 costituiranno oltre il 30% della forza lavoro, non avendo alcun ricordo di un mondo senza Internet. Praticamente tutti possiedono uno smartphone e che per 7 di loro su 10 questo rappresenta il mezzo prediletto per collegarsi a Internet. Inoltre, sono abituati al multitasking (detti 5 screen) e all’uso simultaneo di diversi dispositivi, preferendo Instagram e Snapchat, per le frasi brevi e l’utilizzo di emoticons e linguaggi come LOL e ahahha. Loro sono la Generazione Z, i nati tra il 1995 e il 2012. Quelli che parlano, naturalmente, dalla nascita la “lingua della tecnologia”. Avvantaggiati rispetto a noi, che siamo passati dall’analogico al digitale, quale rischi corrono i ragazzi e le ragazze della Generazione Z? Che competenze dovranno affinare per ‘sopravvivere’ al flusso della digitalizzazione?

Ne parliamo con Luca Maria Gambardella, professore e direttore di IDSIA, Istituto Dalle Molle di studi sull’intelligenza artificiale USI-SUPSI di Manno, nel Canton Ticino, Svizzera.

Prof. Gambardella, che cos’è la tecnologia, per i ragazzi post-Millenials, rispetto a ‘noi’, nati prima della metà degli anni Novanta?

Noi, che non apparteniamo alla Generazione Z, viviamo la tecnologia ancora come un device esterno, per quanto la utilizziamo, spesso perfino con molta adeguatezza e profonda conoscenza. Tuttavia, benché ci siamo abituati a maneggiare diversi dispositivi come smartphone o tablets, indubbiamente parte importante anche per la nostra quotidianità e le nostre vite, la Generazione Z ha imparato ad usare questa tecnologia fin dalla più tenera età, acquisendo con questi strumenti la stessa confidenza che noi avevamo con altre cose. Ne consegue un rapporto molto stretto tra Generazione Z e il mondo digitale, al quale i ragazzi post-1995 attingono autonomamente e con dimestichezza per apprendere. In questo senso i membri della Generazione Z sono veri e propri “nativi digitali”, mentre noi siamo di base “analfabeti digitali”, per quanto immersi nella tecnologia, che finiamo per imparare ad utilizzare eppure senza averla interiorizzata.

Secondo un’indagine recente sulla Generazione Z, il 61% degli studenti delle scuole superiori vorrebbe essere un imprenditore e oltre il 70% vorrebbe avviare un’impresa un giorno. Che tipo di imprenditori dovranno saper essere, i post-Millennials?

A mio avviso, la Generazione Z sarà chiamata a confrontarsi con un mondo lavorativo ibrido, nel quale la tecnologia non solo verrà sempre più usata per prendere delle decisioni ma, e conseguentemente, sarà anche sempre più invasiva. Credo non sia fantascienza e nemmeno da immaginarsi in un futuro troppo lontano una riunione aziendale alla quale partecipano anche alcuni robot. Oppure pensare alla figura di un manager che discute con il proprio tablet su stock da vendere e decisioni da prendere. Tutto ciò richiede un sostanziale adattamento della figura manageriale alla realtà digitalizzata circostante. Se oggi, l’interazione è fatta con persone, le cui espressioni del volto lasciano trapelare emozioni e sentimenti, non c’è spazio per emotività quando si ha a che fare con un robot, con il quale ci si deve invece relazionare con senso critico. Mi spiego meglio. Alla macchina è necessario ‘parlare’ in modo logico, sequenziale, ordinato e seguendo schemi chiari e precisi. Ecco, i manager di domani dovranno saper essere logici negli schemi, passare informazioni in maniera corretta e organizzata.

Come si apprendono queste skills, competenze? Programmando un computer?

Anche, ma non solo. Il senso critico necessario per relazionarsi con le macchine non si acquisisce se non attraverso ‘la cultura’ e studi ‘umanistici’, filosofici, ad esempio. Avere cultura è la precondizione per essere in grado di ragionare in maniera astratta, per comunicare con le macchine. Purtroppo vedo, con una certa preoccupazione, la tendenza all’over-digitalizzazione abbracciata in molte scuole, a partire da quelle elementari. Giusto specializzarsi nel corso degli anni. Tuttavia ritengo che “un certo modo di pensare” debba precedere l’atto del programmare.

Ad esempio, con il collega Francesco Mondata, direttore del Centro Learn all’EPFL di Losanna, stiamo lavorando ad un progetto del Fondo Nazionale Svizzero sull’educazione al digitale nelle scuole ticinesi. Ci concentriamo sull’insegnamento del computational thinking, ovvero il pensiero computazionale, che è quell’insieme di processi e tecniche che servono per analizzare un problema e formulare una soluzione che una macchina (così come qualsiasi persona!) possa eseguire. Un esempio di pensiero computazionale è quello che hanno insegnato a noi, pre-Millennials, ad utilizzare facendo le divisioni ‘a mano’. I nostri giovani come apprendono queste competenze logiche?

Quali altri rischi, oltre all’assenza di pensiero logico, si prospettano per la Generazione Z nel contesto della digitalizzazione?

Un altro rischio, evidente, è quello di essere assorbiti costantemente nel mondo tecnologico, che diventa il proprio lavoro, il proprio hobby, la propria casa, l’unica realtà che si conosce. Ma questa realtà è virtuale! Assistiamo ad un preoccupante numero di ragazzi che vivono nel web, su Facebook, dentro Youtube, costruendosi avatar. E dimenticano la vera realtà, quella fuori. Responsabili di questo attaccamento alla realtà virtuale è la famiglia – nel momento in cui il tablet diventa il nuovo babysitter – così come anche alcuni datori di lavoro. Penso a grandi aziende americane, che promuovendo un forte attaccamento aziendale rendono difficile la distinzione tra ufficio e tempo libero, tra contesto tecnologico lavorativo dallo spazio personale, che deve essere vero, autentico.

Ecco allora, per tornare al nostro progetto nelle scuole: cerchiamo di prestare attenzione alla logica  della comunicazione tanto quanto alla parte ‘fisica’, reale – come quando si teneva in mano una matita: ai ragazzi noi vogliamo mostrare oggetti robotici che si comportano nel mondo e, attraverso l’aspetto materico, creare delle relazioni con il mondo fisico.

Una forte critica al mondo digitale arriva da quanti vedono nel linguaggio dei robot, che saremo (e forse già siamo) costretti ad adottare, un impoverimento della lingua. Smetteremo di parlare la lingua di Dante?

A mio avviso, la macchina e il suo linguaggio non andranno a sostituire il più argomentato, articolato e profondo parlare tra le persone, ma porteranno invece ad un arricchimento della modalità di pensiero logico. Si tratta di imparare un altro linguaggio. Un nuovo linguaggio. E questo non può essere un impoverimento.


Uno spaccato di storia luganese del Ticino pre-universitario ebbe inizio nel 1971 con la costituzione della Fondazione Dalle Molle per la qualità della vita (che ancora oggi ha sede a Lugano) su iniziativa dell’omonimo imprenditore Angelo Dalle Molle (1908-2002), tra l’altro inventore dell’amaro Cynar.
Nel 1988, sempre a Lugano, Angelo Dalle Molle fonda l’IDSIA, Istituto Dalle Molle di studi sull’intelligenza artificiale USI-SUPSI inglobato nel nascente sistema universitario ticinese nel 2000 come istituto comune USI e SUPSI.
Partendo dal pensiero di Angelo Dalle Molle “I progressi della scienza in generale e quelli dell’informatica ai suoi inizi in particolare non devono asservire l’uomo ma piuttosto essere al suo servizio” l’IDSIA si specializza negli anni in sistemi di intelligenza artificiale e di robotica, capaci di imparare da soli e di interagire e collaborare con gli esseri umani. Oggi vi lavorano più di ottanta persone, inclusi professori, ricercatori e studenti di dottorato, e svolge attività di insegnamento nel campo dell’informatica presso USI e SUPSI,
IDSIA è attivo con più di 2M di franchi all’anno e più di 100 pubblicazioni scientifiche presso il Fondo Nazionale Svizzero e trasferisce queste conoscenze alle aziende del Ticino e non solo con progetti e mandati per un valore vicino a 3M di franchi e il contributo del fondo Svizzero Innosuisse, che favorisce le collaborazione tra aziende e centri di ricerca.  L’istituto è in rete con le principali università in Svizzera e all’estero e si occupa di temi quali la finanza, le energie rinnovabili, la medicina, l’industria e la robotica educativa.
Nel 2016 IDSIA è stata nominata e premiata da INVIDIA come uno dei 10 istituti al mondo pionieri dell’intelligenza artificiale insieme a MIT, CMU, Berkeley, NYU, Oxford, Stanford, Toronto, University of Montreal and Honk Kong.

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