Distanti e timidi come le chiome degli alberi

di Stefania De Toma

Mi ha sempre stregato la luce del sole che si infila tra le chiome alte degli alberi nelle mie passeggiate tra i boschi. Non sapevo che in certe foreste, abitate da eucalipti, abeti rossi, larici giapponesi o altri alberi dai fusti molto alti, il cielo costruisce ricami meravigliosi, che talvolta assomigliano a estuari di fiumi, altre a reticoli che disegnano sentieri simili a labirinti,  senza inizio né fine. È un fenomeno che fu chiamato intorno agli anni venti dello scorso secolo,  quando fu descritto le prime volte nei trattati di botanica, “crown shyness”, e  per il quale le chiome di quegli alberi, raggiunta una certa altezza, sembrano volersi avvicinare tra loro e invece  non si toccano  mai;  evitano con precisione  di sfiorarsi creando, per chi guarda dal basso,  sentieri di cielo dalle tinte mutevoli  a seconda del tempo e dei momenti della giornata.

Del fenomeno in cent’anni non si è ancora individuata una spiegazione scientifica prevalente; ma è affascinante considerarle tutte, a partire da quella per cui gli alberi lascerebbero al sole lo spazio indispensabile per entrare fino ai “piani bassi” dei boschi, consentendone la vita attraverso la fotosintesi. La seconda è l’ipotesi per la quale gli alberi eviterebbero di ferirsi tra loro quando sono sferzati dai venti. Già queste potrebbero bastarci per suggerirci comportamenti saggi e virtuosi da tenere in questo periodo. Ma l’ultima forse è la migliore di tutte. Sarebbe un modo per gli alberi di non trasmettersi larve di certi parassiti da una chioma all’altra, impedendo in tal modo una catena infinita di infestazioni. Già, capito bene. Proprio così.

La natura in questo momento di lockdown delle nostre vite sta cercando di comunicarci tante cose, di insegnarci quel che non abbiamo voluto capire con le buone, mettiamola così. Sta parlando chiaro ai nostri comportamenti sbagliati e oggi interrotti bruscamente con l’aria, le acque, la terra più pulite. E questo ennesimo suggerimento forse non sarebbe una cattiva idea tenerlo presente. Sentirsi dire espressioni come “distanziamento sociale” fa sicuramente impressione, specialmente a noi italiani e ancor di più a noi meridionali.

La socialità declinata in ogni forma è nel midollo delle nostre esistenze, del nostro modo di rapportarci gli uni con gli altri, per tradizione o chissà, forse proprio per DNA.

Bizzarro che il nome scientifico di questo fenomeno abbia in sé una “corona”. Quasi una soluzione omeopatica nei confronti di un parassita, proviamo a non chiamarlo virus, che continuiamo a passarci inconsapevoli da una persona all’altra, da una città all’altra. Da un continente all’altro. L’auspicio è che la corona che ci suggerisce la natura possa davvero essere il modo di sconfiggere questo nemico invisibile che ha reso tangibile quel concetto astratto che era il villaggio globale, o ancora di più il famoso detto “il mondo è piccolo”. Magari è il nome, distanziamento che ci spaventa un po’. Ma la distanza necessaria, tutto sommato non sarà tale nel prossimo futuro tale da impedire di guardarci negli occhi, di conversare insieme, di condividerci a livelli più intimi.  Si tratta di imparare a farlo, senza perdere quella socialità che fa parte della nostra vita, come fanno le chiome degli alberi che sono distanti al punto giusto essendosi accanto.

Il web pullula di foto meravigliose delle Crown Shyness. In ogni angolo del mondo. Ma a me piace immaginarne una, nella quale tra le chiome vestite del buio della notte si snodano gomitoli di strade brulicanti di stelle. Oggi tenerci a distanza può salvarci la vita e far riaffiorare sentieri che ci sembrano perduti, o lontani. magari luminosi.  Possiamo farcela.

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