di Giovanna Guzzetti
La festa dell’8 marzo, una sorta di primo maggio al femminile. Interpretazione dissacrante? No, semplicemente storica. Che non si riferisce solo alle operaie tessili americane la cui protesta, nel 1911, finì in tragedia con il rogo della fabbrica le cui uscite erano state bloccate dalla proprietà ma anche alle operaie russe che, nell’anno della Rivoluzione, il 1917, scesero in piazza a protestare contro lo zar.
Donne e/al lavoro. Un binomio che, in qualche contesto, anziché risultare necessario, se non armonico, viene percepito come un ossimoro. Intanto la parola ai numeri. In Italia, a fronte di un tasso di occupazione globale (maschi + femmine) del 58% – OCSE – le donne presentano un tasso inferiore al 50% e prossimo al 70% per gli uomini (a livello di Unione Europea le cifre corrispondenti sono, rispettivamente, il 63 ed il 73). Il che testimonia, nei fatti l’apporto, ancora scarso che le donne, forniscono alla economia e, quindi, alla crescita, nazionale. A ciò va aggiunto che, se osserviamo (come emerge dal grafico), lo spaccato delle professioni femminili a svettare è la percentuale delle lavoratrici a domicilio. Il che significa, in genere, lavoro precario, poco qualificato, senza particolari prospettive di carriera, mera integrazione di un altro stipendio (quando c’è) per conciliare (!) il tempo del lavoro con quello degli obblighi familiari. Si direbbe, in altre parole, un lavoro di serie B.
E su questo trend non influiva ancora lo smart working, una trovata del Covid, ancora in attesa di rilettura e disciplina che se, da una parte, ha consentito a una platea femminile di conservare il lavoro, dall’altra ha messo in evidenza la complessità di una gestione familiare, dove le mura domestiche, improvvisamente, sono diventate uffici ed aule, trasformandosi da luogo di cura ed attenzione in spazi produttivi. Un cambiamento epocale, con conseguenze sociali micro e macro che, nel bene e nel male, vedremo tra qualche anno. Intanto, ad un anno dalla comparsa del virus, ci attendiamo, tutti, miracoli per il futuro dalla implementazione del Recovery Plan, da realizzare attraverso i fondi europei. Un piano che, stando almeno alle osservazioni antecedenti l’insediamento di Draghi, sembrava non soddisfare particolarmente le richieste delle donne, che attraverso associazioni di rappresentanza, hanno sottolineato l’urgenza di:
– allargamento dell’offerta sulla cura della prima infanzia, dei bambini (nidi e tempo pieno) e della cura familiare in generale (anziani e non autosufficienti);
– rilancio dell’occupazione femminile (anche riprendendo ipotesi di supporto fiscale: in questo modo, si favorisce l’ingresso delle donne sul mercato del lavoro e si eviterebbe che le giovani mamme al primo figlio lascino la loro occupazione)
– riduzione/eliminazione del gender pay gap, perché la disparità salariale tra uomini e donne non è solo una questione femminile ma un ostacolo oggettivo a creare benessere per l’intera popolazione.
Quali speranze per il futuro immediato? Draghi, pragmatico, si era pronunciato sulla condizione produttiva femminile dieci anni fa, nel 2011, anno di gravissima crisi finanziaria per il nostro paese (e il pensiero ricorre a Vico ed ai suoi corsi e ricorsi storici…). «Oggi — queste le parole di Draghi — il 60 per cento dei laureati è formato da giovani donne: conseguono il titolo in minor tempo dei loro colleghi maschi, con risultati in media migliori, sempre meno nelle tradizionali discipline umanistiche. Eppure, in Italia l’occupazione femminile è ferma al 46 per cento della popolazione in età da lavoro, venti punti meno di quella maschile, è più bassa che in quasi tutti i Paesi europei soprattutto nelle posizioni più elevate e per le donne con figli». Una fotografia d’annata che, pochi giorni fa, faceva dire a Ferruccio de Bortoli: “Dieci anni dopo, la situazione non è cambiata. Anzi. Il tasso di occupazione femminile è al 48,5 per cento”. E su cui il Covid ha messo un carico da undici. Non a caso Valeria Manieri, studiosa di temi civili e sociali, oltre che di genere, ha coniato la calzante definizione di shecession italiana: ma più che una recessione rosa è una vera e propria espulsione. Gli ultimi rilievi Istat segnalano, nel 2020, una perdita di 444 mila posti di lavoro, di cui 312 mila di donne. Con un record da far tremare le vene ai polsi: nel solo dicembre 2020, su 101 mila posti perduti, ben 99 mila erano al femminile. Numeri che indicano salari venuti meno, povertà relativa in aumento ma, soprattutto, un capitale umano umiliato, calpestato, che la politica deve velocemente recuperare. Davvero prima che sia troppo tardi. Per tutta la società.