È ora di decretare la fine delle metropoli?

Come investitrice nel mercato immobiliare, nutro da anni un certo interesse per le dinamiche che guidano i mercati della compravendita e dell’affitto, e da sempre, la regola aurea è una: location. 

Questo era un principio sacro nell’era pre-COVID. E adesso?  

L’opinione più o meno diffusa suggerisce che la rivoluzione del lavoro a distanza (smartworking) porterà le persone da città affollate e costose a territori più verdi e più sostenibili. In molti valutano traslochi nelle seconde case, nelle periferie, al mare, montagna, al lago o in campagna, complice la velocità di connessione ad una rete sempre più stabile. Il lockdown sembra avere aperto nuovi scenari: vivere nella natura conciliando famiglia, professione e tempo libero e mantenere un lavoro ben pagato in città è possibile. 

Cambierà allora il tessuto urbano? E soprattutto, è un fenomeno sufficientemente grande per essere strutturale? 

Un rilancio della sostenibilità è auspicabile, caldeggiato dalle regole sul distanziamento dettate dal Covid-19, fino a ieri inconcepibili in una società votata all’urbanizzazione spinta. 

Il distanziamento sociale e la pandemia privano le grandi città di quello per cui sono più attraenti: attirare e mescolare le vite e la forza di persone diverse. Coloro che amano le città, e sono molti, non vedono l’ora di tornare alla normalità, o ad un new normal, perché l’epidemia, come ogni crisi, è anche un’occasione per ripensare e migliorare, e questo vale anche per le grandi città. 

Il celebre architetto Stefano Boeri, già in primavera si esprimeva senza dubbi al riguardoin Inghilterra già si prevede una grande spinta verso l’abbandono delle zone più densamente abitate” e lo stesso scenario è prevedibile anche per l’Italia, con la previsione che chi possiede una seconda casa, con molta probabilità, deciderà di trasferirvisi, o di trascorrervi lunghi periodi, sfruttando la comodità e le potenzialità dello smart working. Boeri considera questa esperienza un’occasione per ripensare il proprio modo di vivere e sottolinea che “uscire da questa tragedia senza capirne le concause, sarebbe un vero spreco”.

In fondo, che senso ha pagare più di mille euro per una stanza in centro a Londra, Parigi, Milano, New York, se si può lavorare da una casa più grande, magari con giardino, da una qualsiasi località? 

Domande ricorrenti nel dibattito pubblico mondiale, a cui molti rispondono senza esitazione, sull’onda anche emozionale del lockdown confinato in spazi angusti senza verde.

Non vale la pena, il futuro delle città è a rischio. 

Il New York Times ha pubblicato un lungo articolo sul tema. L’analisi è che il Coronavirus potrebbe rappresentare una cesura storica per gli agglomerati urbani.

Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano, parla dell’attrazione ai grandi centri urbani: “Se questo stato di cose dovesse perdurare per anni il disegno urbanistico si dovrà adattare. Le città si abitano non soltanto per il posto di lavoro fisico, ma anche per tutto il resto: le opportunità, lavorative certo, ma anche sociali e culturali. È sbagliato ridurre una città ai suoi uffici”.

La tendenza ad abbandonare gli uffici, però, è piuttosto indicativa: come riporta il Financial Times, nella City di Londra la maggior parte delle società non ha alcuna fretta di far tornare i dipendenti in sede, stessa cosa hanno deciso grandi aziende come Google (non si tornerà in ufficio prima della primavera 2021), mentre Facebook è andato addirittura oltre, annunciando che entro 10 anni la metà dei suoi dipendenti lavorerà da casa.

Le politiche di alcune aziende sono sufficienti a creare un cambiamento strutturale e inverso rispetto a quello a cui assistiamo da centinaia di anni, dove il genere umano si concentra nelle città, o sarà questo un fenomeno per pochi privilegiati? Come reggerà il costo del mattone nelle città nel breve termine? 

C’è poi l’elemento sociale da valutare. La vita, privata e lavorativa, è alimentata anche dalla presenza fisica, dal proprio network, dalla prontezza ad afferrare nuove opportunità, partecipare a eventi, tutto questo è possibile solo nelle grandi città. 

Infine ci sono gli immancabili interessi commerciali degli attori geopolitici delle grandi città. Gli investitori dietro ai grattacieli cittadini e agli uffici in “prime locations” si scontreranno per interessi divergenti con le grandi imprese, la governance delle città non accetterà lo smartworking a oltranza come dimostrano le dichiarazioni del sindaco di Milano Beppe Sala di qualche settimana fa. Il conflitto toccherà poi l’accesso ai beni pubblici, agli eventi, al trasporto pubblico, se la piena capacità di edifici, teatri, cinema, treni non potrà più essere raggiunta, i costi aumenteranno, e a pagarli sarà il consumatore finale. 

E la sanità? Come assorbirà l’intero territorio nazionale una popolazione sempre più anziana e sempre più dispersa nei piccoli centri? Ci saranno ulteriori rischi per la nostra salute vivendo lontani dai maggiori poli sanitari? 

Entrerà in campo poi la politica, che prenderà le parti degli uni o degli altri. Si parlerà anche di cambiamento climatico: se da un lato centri urbani meno popolosi garantiscono più sostenibilità ambientale e meno inquinamento, dall’altro si dovrà contare meno sul trasporto pubblico e più sulle auto private e si dovranno costruire nuove abitazioni e infrastrutture.

Le città hanno da secoli un ruolo fondamentale per l’umanità, e se l’umanità del futuro non vivrà la maggior parte dell’anno in lockdown, riuscendo a risolvere il problema dello stare insieme, allora le città rimarranno il centro politico, economico, sociale e commerciale della nostra società. 

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