È superato il bello?

di Mario Farina

Una domanda semplice: è superato il bello? E una risposta, in apparenza, altrettanto semplice: sì. Ma una domanda che continua a porsi per due secoli (tanti ne sono passati dagli esordi dell’arte romantica), indica che è il caso di diffidare di ogni risposta semplice, per quanto ovvia e consolatoria possa sembrare. Non è stata soltanto l’epoca delle avanguardie storiche a demolire la categoria estetica per eccellenza. Alla critica modernista del bello, non ha fatto seguito un ritorno al canone classico, ma se è possibile un allontanamento ancora più marcato, segnato dal cinismo e dall’indifferenza della cultura post-moderna. Se le avanguardie riconoscevano nel bello una menzogna e un’offesa di fronte all’alienazione della vita, l’arte a cavallo tra i secoli ha visto nel crollo delle grandi ideologie la possibilità di un recupero del bello in chiave ironica, come fosse uno dei tanti fenomeni culturali a disposizione utilizzabili alla bisogna. Non più qualcosa a cui opporsi, il bello è stato anestetizzato dal sopracciglio alzato di una generazione che ha conosciuto le forme dell’arte rinascimentale prima sulle t-shirt alla moda che sui libri di storia dell’arte. E allora il bello ha iniziato davvero a sembrare un ferro vecchio, utile tutt’al più come reperto culturale, a dimostrazione che sì: il bello è superato, senza più punto di domanda.

Ma come nelle fiabe, il Re ucciso torna come fantasma a tormentare i propri assassini. Quello che l’estetica classica intendeva quando scomodava il nome del bello non era nient’altro che la capacità dell’opera d’arte di riuscire nel proprio intento e presentarsi come qualcosa di compiuto e di adeguato al proprio scopo.

Il bello aveva il senso dell’interruzione, dell’impressione che il lavoro fosse concluso e non occorresse più andare avanti. Altrimenti, come avrebbe potuto Hegel considerare bella l’Antigone, espressione del conflitto tragico, o Winckelmann eleggere lo strazio di Laocoonte a paradigma della bellezza?

La domanda se il bello sia superato merita allora di essere riletta con sguardo più attento, magari chiedendosi se quel “bella!” che si esclama dopo la più cruenta della performan- ce di Marina Abramovic o usciti dalla più disturbante esibizione di mucche squartate di Damien Hirst non sia qualcosa di più di un retaggio lessicale.

Se non sia la dimostrazione che l’arte ha ancora bisogno di un criterio di compiutezza, espresso dall’equilibrio con cui si presentano i conflitti da cui prende forma.

Che non significa negarli, ma piuttosto pro- mettere che un giorno, forse, potranno essere pacificati.


Mario Farina, laureato in filosofia a Pavia nel 2008, è assegnista di ricerca all’Università di Firenze. Insegna estetica all’Università del Piemonte Orientale e al Politecnico di Milano. Si occupa di filosofia tedesca e filosofia della letteratura.

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