Eccellenze italiane. Intervista a Bebe Vio

Gli eroi non esistono. L’unione fa la forza, sempre

In foto Bebe Vio, photocredit Augusto Bizzi

Di Cristina Penco

È una “ragazza magica” per sé stessa e per gli altri, Beatrice “Bebe” Vio, come recita la canzone di Lorenzo Jovanotti, il suo cantante preferito. L’artista ha dedicato questo brano alla campionessa paralimpica nel 2016. La Vio stava rientrando in volo dal Brasile dopo i Giochi di Rio 2016, dove aveva vinto una medaglia d’oro. E, sull’aereo, prima della partenza, il pilota ha diffuso il saluto speciale per lei, mandatole, a sorpresa, dal suo “Jova”. A cinque anni di distanza, “Bebe” ha vinto nuovamente a Tokyo 2020: un oro nel fioretto individuale e un argento nel fioretto a squadre. L’impresa compiuta in Giappone dalla ventiquattrenne veneta è sembrata proprio una magia, un sogno collettivo, diventati realtà.

Solo ad aprile Bebe Vio ha rischiato di morire a causa di un’infezione da stafilococco e, appena 119 giorni dopo aver lasciato l’ospedale, sfidando ogni limite, è salita in pedana e ha trionfato. «La sua storia è un contrasto delle avversità, una rinascita contro ogni aspettativa», ha commentato la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in aula a Strasburgo, dove di recente ha invitato la Vio. «Ce l’ha fatta attraverso il talento, la tenacia, l’indefessa positività. È una paladina dei valori in cui crede e ha raggiunto i suoi risultati applicando il suo credo. Se sembra impossibile allora puoi farlo», ha concluso la von der Leyen, citando il motto di “Bebe”, in linea con i valori e lo spirito dei padri fondatori dell’Unione Europea. Una ragazza-simbolo, Beatrice, capace, con il suo coraggio e il suo entusiasmo, di “lanciare in aria il mondo e riprenderlo al volo”, parafrasando Lorenzo Jovanotti. E, per questo, un modello a cui ispirarsi a ogni età e in qualsiasi condizione ci si trovi. La Vio è anche da tempo impegnata a sensibilizzare il pubblico al valore della diversità. Con art4sport, l’associazione fondata nel 2009 dai suoi genitori, la schermitrice ha appena lanciato WEmbrace Sport, un grande evento sportivo benefico che si svolgerà il 25 ottobre a Milano. Una serata unica nel suo genere, in cui campioni delle Nazionali Olimpiche e Paralimpiche – dal basket al calcio, dal volley fino alla scherma – saranno impegnati tutti insieme in una sfida sportiva inedita. Ecco che cosa ha raccontato “Bebe” in una conferenza stampa virtuale organizzata per illustrare la manifestazione (i biglietti sono disponibili su Ticketmaster.it. I fondi raccolti andranno a sostegno di art4sport). Erano presenti anche i presidenti del Coni – Comitato Olimpico Nazionale Italiano, Giovanni Malagò, e del Cip – Comitato Italiano Paralimpico, Luca Pancalli.

Bebe, credi profondamente nello sport integrato e lo vivi come una missione. Di che si tratta?
«Per me è un modo per abbattere i pregiudizi e dimostrare la grande forza e competitività degli atleti paralimpici. Siamo tutti diversi, ognuno ha i propri limiti, le proprie debolezze, ma anche i propri punti di forza. Fare sport integrato può davvero far vedere le qualità di ciascun atleta e rappresentare un arricchimento per chiunque assisterà alle competizioni di “WEmbrace Sport”».

Il giorno dopo sarà inaugurata la Bebe Vio Academy, sempre a Milano, in collaborazione con Nike. In che cosa consiste?
«È un altro progetto che mi sta molto a cuore, e che intende sempre promuovere lo sport in maniera integrata, come strumento di inclusione, partecipazione e divertimento, con gruppi di giovani, con e senza disabilità, che nel capoluogo lombardo potranno cominciare a praticare diversi sport e poi scegliere quello che preferiscono».

Che cosa ti ha colpito di più dell’incontro con la von der Leyen e i parlamentari UE a Strasburgo?
«È stato bellissimo. Doveva essere una cena informale, in realtà poi sono finita al Parlamento europeo! Siamo stati contenti perché la von der Leyen ci ha chiamati non tanto per conoscerci e “bere uno spritz” insieme, ma per parlare di tutto ciò che abbiamo in comune. Le interessava sul serio capire molto di più sullo sport paralimpico e comprendere che cosa si può fare. Sarà veramente “figo” portare WEmbrace al di fuori dell’Italia. Era già nostro obiettivo. Ora con la von der Leyen sarà ancora più facile».

Sei nata a Venezia nel marzo 1997. Nel 2008, all’età di 11 anni – da 5, tra l’altro, tiravi già di fioretto – sei stata colpita da una meningite fulminante. La conseguente, grave infezione del sangue ha devastato il tuo corpo e ha portato all’amputazione di tutti e quattro i tuoi arti. Che cosa diresti oggi a quella bambina?
«Sono ancora una bambina, sono giovane! Scherzi a parte, quando ho iniziato a fare sport ho avuto la possibilità di crescere da questo punto di vista. Ho potuto provare tutti i vari sport e scegliere quello di cui innamorarmi. Era quello che volevo dopo la malattia. Ecco, più che a me stessa, a un’altra bambina nella stessa situazione, oggi, direi di venire a “WEmbrace” e alla Bebe Vio Academy. Sono sedi in cui ci sarà la possibilità di sperimentare tutto, con tutte le attrezzature disponibili. Una volta che si sceglie la propria disciplina, si sarà indirizzati verso la società più adatta. E poi creeremo anche altre nuove società, per lasciare qualcosa al territorio».

Dove hai trovato la forza per affrontare le ultime Paralimpiadi dopo una primavera critica per te e la tua famiglia?
«Sono molto fortunata. Ho tanta gente intorno che mi dà una grande mano – a partire da mia mamma e mio papà – e che ci sostengono. Io rompo tanto le scatole ogni volta che c’è un progetto, ma incontro sempre persone molto disponibili. Sono i ragazzi stessi dell’associazione che ci danno molte idee e voglia di fare qualcosa di più. Quando ero piccola sono stati molti che mi hanno aiutato a ripartire. Sono moralmente obbligata a dare una mano a quei ragazzini che ora sono bloccati in casa e non sanno come fare attività, non sanno che anche senza una gamba possono correre. Il mio scopo è far sì che tutti conoscano lo sport paralimpico. Il mio sogno, che vorrei si concretizzasse entro cinque anni, è andare in una palestra e vedere una pedana paralimpica accanto a quella olimpica, un ragazzo che corre e uno in carrozzina accanto che fa lo stesso»

Sei mai stata sul punto di rinunciare a Tokyo 2020?
«È stata tosta quest’anno. Non ho sempre pensato di farcela, affatto. La maggior parte delle volte tenevo duro perché volevo che i miei compagni fossero costantemente stimolati. Sapevo che se avessero pensato che tutto fosse a posto avrebbero proseguito nella preparazione. Ed è andata così. Tanti mi sono stati vicini, ma, a livello fisico, mi hanno supportato soprattutto il mio fisioterapista e il mio preparatore atletico. Loro ci hanno creduto fin dall’inizio e non hanno smesso di farlo anche quando li ho avvertiti dell’operazione».

Qual è il segreto che si nasconde dietro le medaglie, vinte nonostante le avversità?
«Nessun atleta arriva a ottenere certi risultati se non ha una squadra, una famiglia alle spalle. Per me i traguardi di Rio, ma soprattutto quelli di Tokyo sono stati tutti merito del team che mi ha sostenuto. È stato proprio a Tokyo che mi sono resa conto che puoi svenire mille volte e vomitare altre mille, ma se lo fai per la tua squadra, per l’amore che hai per i tuoi compagni, quello, insieme all’adrenalina, ti aiuta tanto, anche se fisicamente stai cadendo a pezzi».

Quale messaggio daresti ai ragazzi disabili che hanno difficoltà a ripartire?
«In generale, oggi, numerosi giovani fanno fatica, al di là della disabilità. Ho letto statistiche da cui emergeva che le bambine di adesso smettono di sognare in grande a 5 anni! Il nostro obiettivo, attraverso le nostre iniziative, è proprio quello di divertirsi tutti insieme, affinché sia una chiave di rinascita. Il punto è trovare nuovi stimoli per avere uno scopo nella vita».

Qual è il tuo prossimo obiettivo?
«Più viaggio e più mi rendo conto quanto siamo avanti, in Italia, a livello di inclusione, e non solo in ambito sportivo. Negli ultimi cinque anni, almeno una volta all’anno, sono stata in Giappone. Lì, se vai in giro con una protesi o in carrozzina, ti guardano in modo strano e pensano non sia giusto che tu vada per strada. In Russia c’è chi sostiene che non esistano disabilità. Ma è perché non si vedono in giro persone disabili. Questo è il problema. Noi atleti paralimpici siamo visti un po’ troppo come eroi, in realtà siamo normalissimi. Ci impegniamo tanto nello sport così come nella vita di tutti i giorni. Del resto, è la strada giusta e corretta. Vorrei solo che un ragazzino disabile che cresce non avesse dubbi sul fatto di poter fare o meno dello sport, ma che fosse sicuro che può dedicarsi veramente a ciò che gli piace».

Continuare
Abbonati per leggere tutto l'articolo
Ricordami