Ecco perché le elezioni in Brasile ci riguardano da molto vicino

Bolsonaro e Lula si preparano al ballottaggio del 30 ottobre, senza risparmiare sugli insulti reciproci. Chi sceglieranno i cittadini del paese delle favelas?

di Giovanna Guzzetti

Dio, patria e famiglia. Un motto dal tratto italico che, declinato nel portoghese brasiliano dal sotaque soave, sta facendo parte della battaglia, senza esclusione di colpi, che i due candidati per la presidenza del Brasile (che verrà assegnata nel ballottaggio del 30 ottobre) stanno conducendo. Uno, Jair Bolsonaro, esponente del Partito Liberale fortemente di destra, per rimanere in carica dopo i suoi primi 4 anni; l’altro Luis Inàcio Lula da Silva, figura di grande spicco del PT (il partito dei lavoratori, trabalhadores) per tornare ad essere primo cittadino, dopo i due mandati già compiuti, e, soprattutto, per riabilitarsi del tutto dopo una detenzione legata a motivi di corruzione, poi annullata dalla Corte Suprema. L’operazione Lavajato che ha portato Lula in carcere ha visto in primo piano la figura del giudice Sergio Moro, affetto, si dice, da una sorta di fumus persecutionis nei confronti dell’ex capo dello Stato. Sarà un caso ma Sergio Moro ha anche ricoperto l’incarico di ministro della Giustizia all’inizio dell’era Bolsonaro, il che, certo, non ha diradato i sospetti dell’altra parte politica…
Di sentenza in sentenza siamo arrivati qui, alla vigilia del voto che darà al Brasile un nuovo presidente. Una figura che, come sempre, si troverà ad affrontare disagi economici e sociali, tante sono le (profonde) disparità fra le diverse aree del Paese e i diversi strati della popolazione.

In realtà molti avevano previsto – o sperato? – che il cambio della guardia avvenisse già al primo turno. Ma il 3 ottobre 2022 Lula, dato per vincitore, non ce l’ha fatta a superare la soglia del 50% dei voti. Si è fermato al 48,43 % contro il 43,20% del presidente in carica. Che, se adesso è impegnato a cercare di recuperare il gap con Lula, vede però il suo partito con la maggioranza del seggi alla Camera,99, contro gli 80 del Brasile della Speranza, il raggruppamento delle forze di sinistra che include il partito dei Lavoratori (PT), il partito comunista del Brasile ed il partito Verde.

Nei giorni che separano il Brasile – dove il voto è obbligatorio – dalla scelta del suo primo cittadino (non nuovo, in entrambi i casi) l’area progressista manifesta un certo ottimismo rispetto a Lula, che viene accreditato di un vantaggio di almeno 3,5 punti rispetto al rivale. Una differenza che non consente però di dormire sonni del tutto tranquilli. Del resto Bolsonaro non esita a screditare gli exit poll che lo avevano già dato ko al primo turno. Abbiamo vinto sulle menzogne degli istituti di sondaggi», ha tuonato Bolsonaro. «Ora lavorerò per cambiare il voto dei brasiliani».
Fin qui un esempio di relativo bon ton, ma i due non si risparmiano gli insulti, dove il meno “offensivo” risulta essere ladro. Per Bolsonaro Lula è peggiore di Al Capone che, al suo confronto, sarebbe stato solo un borseggiatore. Lula replica e, per toccare le corde dell’elettorato, sottolinea la scarsa umanità di Bolsonaro che certo, fin qui, non ha sposato la causa delle minoranze in grave difficoltà: non lo circondano mai “persone nere, persone brune, persone povere”. Eppure il Brasile è un laboratorio di convivenza di etnie e di presenza di minoranze che l’ex militare sembra del tutto ignorare. E che deve aver fatto perdere il controllo, perlomeno verbale, a Lula: “Bolsonaro è un ignorante. Quel modo di essere rude, quel modo da collo rozzo delle campagne di San Paolo, avete presente? Quello è Bolsonaro”. 

E’ proprio vero che in politica, come in guerra, gli schemi tradizionali saltano. E il progressista Lula, l’uomo di umilissime origini, operaio, che ha cercato di (ri)dare dignità e speranza ai più deboli, addirittura a quelli senza rappresentanza, si trova ad avere uscite infelici verso le braccia che raccolgono caffè e zucchero nel più grande stato del Brasile (San Paolo).
Gli ultimi in Brasile sono davvero tanti e la situazione non accenna a migliorare. Una consapevolezza trasversale, nel paese delle favelas, se si pensa che entrambi gli uomini, durante i loro mandati, si sono sentiti chiamati a gestire il problema delle abitazioni per le classi meno abbienti.

Da “Minha casa minha vida” a “Casa verde e amarela”. Programmi di alloggi popolari per i bisognosi, ma permangono le favelas, disumane…

E se infatti Lula lanciò nel 2009 Minha casa minha vida, un programma per consentire l’acquisto agevolato di case a nuclei con un massimo di 1800 reais al mese (tra 350 e 400 euro), Bolsonaro ha ricalcato le orme del predecessore in toto, limitandosi ad una operazione di maquillage: il piano, proprio all’insegna di patria e famiglia, è stato ridenominato Casa verde e amarela, casa verde e gialla, quelli della bandiera brasiliana che reca la scritta Ordem et progressio.

Nessun dubbio sul primo, vista l’inclinazione “squadristica” di Bolsonaro; quanto al progresso, alla crescita, in Brasile ce n’è di strada da fare. Una considerazione non scevra da tristezza e disappunto, viste le ricchezze naturali e del sottosuolo (ricordiamoci dello stato di Minas Gerais) del paese sudamericano.
Durante il mandato di Bolsonaro sono risuonati alti, più volte, gli appelli per la tutela della Amazzonia e degli indigeni che lì vivono: insensibile il primo cittadino che ha guidato nel tempo “un esercito di taglialegna e minatori, arricchendosi grazie a questa devastazione”.

E’ per proteggere questo polmone verde indispensabile per l’umanità intera ma, soprattutto, per cercare di ridurre la povertà ancora endemica in un paese potenzialmente ricco che il 30 ottobre 2022 torneranno alle urne oltre 156 milioni di brasiliani, su una popolazione di 210 milioni. E di questi il 5 per cento circa vive con meno di 2 dollari al giorno (dati della Banca Mondiale). Vale a dire, circa dieci milioni di persone non possono permettersi nemmeno il cibo per sopravvivere. Una situazione che la pandemia ha solo aggravato: la sanità brasiliana ha mostrato tutta la sua fragilità, inefficienza, mancanza di mezzi, in parte legata (o cavalcata) da Bolsonaro che ha spavaldamente negato, o ridimensionato, la presenza e la virulenza del Covid.


Guardando però oltre i confini gialloverdi, l’elezione del nuovo Capo dello Stato di Brasilia fa porre l’attenzione sugli equilibri del Sud America, che le recenti consultazioni in altri paesi hanno modificato. È il caso di ricordare la vittoria vittorie di Gabriel Boric in Cile, fino a poco tempo fa un leader studentesco spinto a La Moneda sull’onda delle vibranti proteste sociali del 2019, o di Gustavo Petro, primo leader di sinistra a conquistare la presidenza della Colombia. Il ritorno in sella di Lula rappresenterebbe, in questo scenario, una affermazione di peso e rilievo, pur nella consapevolezza che l’attuale sinistra sudamericana non è la stessa dei primi anni Duemila.

Un’accademica colombiana, Sandra Borda Guzman, ne sottolinea le profonde differenze: “Nel caso dell’America latina, c’è un movimento verso la sinistra ma non è la stessa sinistra di una decade fa, non è l’ondata rossa dei tempi di Chávez, Lula, Unasur e la Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac). Credo che questo movimento è di una sinistra diversa, un po’ più moderna e con l’intenzione di agire collettivamente ma sotto premesse differenti”.
Anche qui, Brasile in testa, verso una prospettiva progressista dai tratti liberal riformisti? Presto per dirlo mentre già, sul fronte opposto (sovranista, nazionalista e populista), si agitano gli spettri dei brogli al ballotaggio.
Bolsonaro come Trump? Chi può escluderlo. Con il rischio di una replica dell’assalto al Campidoglio a Brasilia, la giovane capitale omaggio al genio di Oscar Nyemeier. 

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