ESSENZIALITÀ DOMESTICA
di Andrea Foppiani
Chi come me, in queste ultime settimane estive, si è concesso qualche giorno di vacanza e nel farlo ha soggiornato in hotel, airbnb o simili, avrà certamente condotto, appena messovi piede, un più o meno attento esame della propria stanza o abitazione, magari persino cercando di immaginare qualitativamente l’imminente permanenza. Deformazione professionale o gusto soggettivo che sia, uno degli aspetti che più di altri determinano un senso di sollievo e soddisfazione nell’entrare in una stanza è, personalmente, l’osservare superfici sgombre, pervase dalla luce, prive o quasi di soprammobili od oggetti di sorta, pronte ad accogliere silenziosamente, facendosi spazio al proprio servizio, confortando lo sguardo con pochi elementi di chiara lettura.
Naturalmente, uscendo dal pretesto della casa vacanze o della camera d’albergo, una simile considerazione si può applicare a quasi tutti i tanti spazi del nostro vivere, a partire da casa propria e appellandosi al quotidiano contrapporsi tra caos e silenzio, tra sovrabbondanza ed essenzialità.
Pensandoci bene, è probabile che siano molte le persone soggette, almeno superficialmente, al fascino della forma pura, chiara, liscia che contraddistingue il linguaggio minimalista e si traduce in spazi luminosi e liberi, senza orpelli, pizzi o centrini. Ciò che è meno immediato, per me come per tanti, è accettare e fare proprio, nell’intimo di casa nostra, questo vuoto, questo silenzio. Se infatti sfogliando un catalogo di arredo o passeggiando per un museo d’arte contemporanea, è pacificamente accettabile il trovarsi di fronte a spazi dominati da un ordine fatto di pochi elementi ben accostati (trave, pilastro e pavimento come quadro, tenda e tappeto), diventa spesso più complicato trasferire la stessa armonica combinazione di elementi in un luogo intensamente vissuto, stratificato, consumato come la propria abitazione.
Il tempo gioca poi un ruolo determinante nel cambiare le nostre percezioni delle cose: ciò che oggi la moda e i media ci presentano come moderno e accattivante, potrebbe diventare terribilmente noioso, stridente o inadeguatamente caotico nel giro di pochi anni, mesi, giorni.
Per vincere questo rapido decadere, sottrarsi all’esasperazione quasi istrionica che quotidianamente ci spinge a circondarci di nuovi oggetti con cui riempire i nostri cassetti, scaffali e tavolini, occorrerebbe fermare il tempo, occorrerebbe raggiungere una sorta di astrazione dal tempo stesso. Un modo per sottrarsi alla sovrabbondanza di stimoli che giorno dopo giorno ci allontanano dalla serena contemplazione delle cose, potrebbe essere proprio quello di abitare spazi più stemperati, in grado di ben sopportare gli scossoni del tempo. Naturalmente potrebbe sorgere un dubbio: trattasi questa di una velata spinta al monachesimo, all’estrema semplicità? Non necessariamente. Sono infatti numerosi gli artisti, architetti e letterati che hanno raggiunto forme chiare e pure senza però ridursi ad un linguaggio povero.
Si prenda come esempio il grande architetto del Ventesimo secolo Ludwig Mies van der Rohe, il cui operato ha gettato e continua a gettare le basi per la concezione di spazi di cristallina trasparenza e candida complessità. Nei suoi progetti Mies non raggiunge risultati di estrema astrazione tramite una delusa rinuncia: nel suo celeberrimo Padiglione di Barcellona, materiali come il marmo, il vetro e l’acciaio cromato sono infatti assemblati tramite complessi rapporti di vicinanza, percezione e cromia. Ciononostante, tale complessità è complementare rispetto all’elementarità della composizione secondo regole chiare e determinate, diventando necessità: da qui il suo celebre “less is more”. Non meno qualità, meno spazio, meno rapporti tra gli elementi; piuttosto meno suscettibilità al facile esasperarsi del bello, dello spettacolare.
Se dunque si è affascinati dall’essenzialità e dalla nitida forma di volumi e superfici al punto di voler impegnarsi a con-viverci, occorre comprendere e fare proprio il valore del vuoto, del silenzio, dell’elementare, al di sopra di qualsiasi effimera esaltazione del nuovo, dell’innecessario; in modo da poter contemplare, di giorno in giorno, spazi che non siano vacui ed inespressivi, né tantomeno stracolmi e ridondanti. Chissà se la prossima volta che riempiremo il carrello all’Ikea ce lo ricorderemo…