Gigi Proietti: “Volevo solo la luna”

Era una frase che aveva sentito pronunciare dal suo primo maestro, Carmelo Bene, un rivoluzionario del teatro che ne aveva da subito percepito il talento. E lui l’aveva fatta propria per descrivere la sua idea di teatro, “quasi una comunità”. C’era riuscito per molti aspetti perché non c’erano barriere tra lui e il pubblico, di qualsiasi età, estrazione culturale, provenienza geografica; non c’erano mai state, dai tempi di quell-invenzione che fu “A me gli occhi, please”, sperimentazione di un modello di spettacolo teatrale di cui lui era l’irresistibile mattatore e a cui dal 1976 hanno assistito centinaia di migliaia di spettatori. 

Artisti come Gigi Proietti si sentono come amici propri e li si piangono come tali: sarà stata la sua simpatia immediata unita alla qualità interpretativa dei più grandi, la versatilità capace di appagare il pubblico più vario, la capacità di usare il teatro per dispensare etica e saggezza con ironia e intelligenza. Ma anche la sua semplicità, che lo faceva sentire ovunque “uno di noi”, con la missione di rendere felice la gente, farla ridere, “perché ridere rende più felici grazie alle endorfine che il ridere rilascia”. 

Non sarebbe stato capace di sedurre generazioni di pubblico se non fosse stato capace di reinventarsi continuamente nell’esprimere se stesso nella caleidoscopica umanità che ha rappresentato e che riusciva a rendere con quella spontaneità e immediatezza, frutto di una meticolosa e quasi maniacale preparazione, dalla quale anche l’improvvisazione finiva per produrre frutti magnifici: “Dilato asciugo sfumo rielaboro”, soleva dire della stesura dei suoi testi e delle prove sul palcoscenico. Dal quale recitava, cantava, suonava, era capace divertire e emozionare, consapevole che “ogni risata nasce da una lacrima”.

Aveva ottant’anni e la sua energia, di recente sprigionata attraverso collegamenti da casa, dove viveva un isolamento precauzionale dall’inizio della pandemia come molte persone anziane hanno scelto di fare (“Roma non è spettrale”, commentando il deserto dello scorso lockdown, “se stà a riposà”), avrebbe potuto continuare a donarsi al pubblico, contraddicendo con vigore quell’infelice espressione di un politico italiano che ha definito gli ultrasettantenni “persone che sono per fortuna per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese”, in quanto vittime privilegiate del Coronavirus. 

Una delle sue più emozionanti ultime prove d’attore in televisione è stata l’interpretazione di san Filippo Neri, prete toscano che rinunciò alla sua ambizione di fare il missionario per rimanere ad aiutare i bambini poveri della Roma del cinquecento: il film si chiama “Preferisco il paradiso” e nella scena finale andava via così, col sorriso, pronunciando quella frase che aveva insegnato a cantare ai suoi bambini. 

Pare che al suo radiologo, mentre stava per fare l’ultima tac prima del peggioramento, abbia chiesto, con la solita ironia “je la faccio, dottò?” Non ce l’ha fatta.

Chissà; potrebbe darsi che il cuore stanco di lui, che era un leone, abbia preferito il paradiso ai teatri chiusi, bene impareggiabile per la diffusione della cultura attraverso scintille innescate nell’animo della gente (“dove tutto è finto ma nulla è falso”); e alle macerie in cui da tempo, e ora più che mai, è ridotta la scuola. Perché lui maestro lo è stato davvero, avendo fondato un laboratorio teatrale che ha forgiato attori e attrici che oggi lo piangono come si piangerebbe un padre e ne parlano come di un laboratorio di vita.  

Già, chissà che la morte di Proietti non imponga una riflessione diversa in questo momento quanto alle misure che ci dovrebbero proteggere.

Per lui che voleva la luna, quella della notte tra il primo e il due novembre era bellissima, quasi una dedica in esclusiva, densa di luce infuocata e poi sempre più sfavillante, come fosse sorta solo per lui e con lui tramontata allo stiracchiarsi dell’aurora, alle cinque e mezza del mattino, proprio mentre il suo cuore cessava di battere. 

Che colpo di teatro, questo di morire al compiersi degli ottant’anni nella ricorrenza dedicata a chi non c’è più. Invece de “La livella” di Totò che imperversa normalmente sui social il giorno dei Morti, quest’anno era il suo sorriso ad apparire ovunque accompagnato dalle sue perle di saggezza sgranate in spettacoli e interviste. Perché uomo saggio Proietti lo era davvero, oltre che ricco di una cultura vastissima e raffinata, che gli ha reso possibile spaziare tra la tradizione popolare di borgata e il grande teatro shakespeariano, ispiratore del sogno realizzato del Globe Theatre a Roma che sarà a lui intitolato. 

“Questa è una società in cui si esagera con l’iperbole, una cosa bella diventa meravigliosa. C’è stato un periodo che non riesco a datare, in cui le parole hanno cominciato a nascondere il vuoto. Più esageri più devi nascondere”.  Ma come facciamo a non esagerare parlando di lui? 

In un momento, in cui le cronache raccontano il dramma della pandemia e del terrorismo internazionale, l’Italia ha trovato lo spazio di piangere l’ultimo grande attore vivente della nostra scena, amato come pochi, da nord a sud. Una vignetta gira in rete che a noi romantici e appassionati del mondo Disney ha fatto sorridere: il genio di Aladin che lo abbraccia, quel personaggio immaginario a cui aveva prestato le mille sfumature della sua voce e del quale diceva “perché regalare tre desideri? A me ne basterebbe uno, la salute!”. Peccato che non avesse la lampada, come la vorremmo tutti noi per sconfiggere il virus che sta depredando il pianeta. 

Ma gli artisti non muoiono mai, specie quando sono uomini generosi e galantuomini col pubblico come lui; e il suo faccione sorridente proiettato sui monumenti di Roma difficilmente svanirà nel cuore della gente. Nell’ebraismo si dice che gli uomini giusti nascono e muoiono nello stesso giorno: ci piace pensare che questo ottantesimo due novembre non sia stato casuale. 

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