Giudici-robot per sentenze a prova di dubbio. Accade in Cina

L’amministrazione della giustizia da parte di esseri umani -che nella interpretazione della legge e nella emissione delle sentenze portano anche il loro pensiero e convinzioni- è un problema che tiene banco da secoli.

I Paesi hanno poi risolto il dilemma nelle proprie Carte Costituzionali, garantendo l’indipendenza dei giudici o legandoli al potere politico, senza di fatto fugare il dubbio che al di là di ogni ragionevole dubbio le decisioni non siano oggettive e imparziali.

Ed ecco che la Cina propone la soluzione: un magistrato-robot progettato utilizzando oltre 17mila casi tra il 2015 e il 2020 e con una precisione che può avvicinarsi al 97%, ossia con errori bassissimi.

Non una macchina in carne e ossa (per lo meno non ancora), ma un algoritmo che impara dalle cause di tribunale già chiuse e riesce ad avere un proprio criterio di giudizio. Una sorta di intelligenza artificiale, che impara dai giudizi umani e li replica con un proprio metro per individuare i colpevoli.

Il software è ad oggi in grado di formulare un’accusa formale per oltre 8 diversi tipi di reato: frodi con carte di credito, gestione di un’operazione di gioco d’azzardo, guida pericolosa, lesioni intenzionali, intralcio ai doveri d’ufficio, furto, frode e scelta di litigi e provocazione di guai. 

Il programma elabora l’incriminazione sulla base di tre fattori: 1)valutazione delle prove; 2) elaborazione dei presupposti per l’arresto e 3) calcolo della pericolosità del sospettato.

La condanna invece continua ad essere emessa da un giudice, perché secondo Shi Yong, direttore del laboratorio di gestione dei big data dell’Accademia cinese delle scienze, nonché capo del progetto scientifico: “Prendere decisioni di condanna richiederebbe che una macchina identifichi e rimuova qualsiasi contenuto di un fascicolo irrilevante per un crimine, senza rimuovere le informazioni utili. La macchina avrebbe anche bisogno di convertire un linguaggio umano complesso e in continua evoluzione in un formato matematico o geometrico standard che un computer potrebbe capire”.

L’esperimento cinese non è certo il primo: già dal 2020 in Malesia era stata emessa la prima sentenza da parte di una intelligenza artificiale che funzionava più o meno come quella sperimentata in Cina: un algoritmo che impara dai verbali e dai processi degli anni precedenti, affina i propri criteri ed emette giudizi.

E prima ancora ci aveva pensato il cinema ad interpretare il desiderio di spersonalizzazione del giudizio e prima ancora di prevenzione del crimine. Nel 2002 Steven Spielberg firmava “Minority Report”, nella quale la Polizia arrestava le persone soltanto sulla base dell’intenzione di commettere reati.

Quanto descritto, mostra bene il contrasto tra l’esigenza di avere sentenze giuste, non deformate dalle idee personali del magistrato e il senso di onnipotenza che può cogliere chi sente di poter sostituire una attività umana, e dunque fallibile, con quella di una macchina.

Se un giudice in quanto umano può sbagliare (ed ecco il motivo dell’esistenza di tre gradi di giudizio in pressocchè tutti i Paesi e la presenza di una Corte Europea dei diritti dell’Uomo per l’UE), gli algoritmi possono arrivare a processare le intenzioni e a perseguire non i fatti, ma addirittura un sentimento dettato dall’ira del momento o peggio ancora deduzioni su base genetiche o sociali.

L’epoca lombrosiana è stata superata con successo, ma i dubbi sui magistrati e sulla efficienza ed efficacia del sistema legislativo non passano mai.

E d’altro canto basta pensare all’omicidio di un bambino di 7 anni compiuto dal padre – indagato per altri reati – per punire l’ex moglie, per chiedersi se i giudici siano in grado di prendere decisioni che tutelino la comunità dai delinquenti.

Come è possibile che un soggetto accusato di reati contro la persona abbia potuto passare il Capodanno con il figlio minore senza che gli fosse stato sospeso o revocato l’affidamento condiviso?

O ancora basti pensare ai tanti innocenti che hanno scontato periodi in carcere per poi essere assolti.

Il problema è che l’emissione di una decisione non è frutto solo del magistrato, ma di una complessa macchina amministrativa composta da persone a partire dalle forze dell’ordine. La domanda che dovremmo farci è se sia davvero percorribile l’applicazione della tecnologia all’interno di una sfera così delicata come quella dei processi penali e del potere giudiziario (insieme a legislativo ed esecutivo, uno dei tre pilastri dello Stato contemporaneo), perché evidentemente non basta la responsabilità del magistrato. Che tra l’altro è un “dopo” rispetto al delitto e alle sofferenze delle vittime, senza contare le lungaggini processuali che fiaccano lo spirito e che spingono innocenti spesso a gesti estremi.

È difficile giudicare l’esperimento cinese, di certo non va accantonato come una trovata dell’ultima ora.

I problemi legati all’operato dei giudici esistono dalla notte dei tempi e di uomini come Salomone così come descritti nella Bibbia, non vi è traccia nei libri di storia.

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