Giuseppe Ayala: “La legalità conviene!”

Dall’inizio della pandemia di COVID-19 si è molto parlato di mafia, in quanto capace di infiltrarsi nelle crepe dello Stato là dove si creino emergenze e bisogni per la collettività. La mafia messa in ginocchio da voi del Pool Antimafia è sempre un fuoco sotto la cenere pronto a riaccendersi?

Espressione efficace quella di fuoco sotto la cenere. C’è un dato di cui tenere conto: dopo i colpi seri ricevuti dallo Stato dal 1993, bisogna considerare che la mafia ha abbandonato la strategia stragista in favore della vecchia logica della clandestinizzazione, ossia apparire il meno possibile. Da quel periodo durato una quindicina d’anni con le stragi e gli omicidi di Falcone, Borsellino, Piersanti Mattarella, Dalla Chiesa e tanti altri, sono oggi più di ventisette anni che non vi è stata alcuna azione simile da parte di Cosa Nostra. La mafia in quel periodo riteneva di essere così forte – grazie in particolare al traffico internazionale di stupefacenti – da potersi contrapporre allo Stato quasi da pari a pari. Quella strategia non ha pagato, perché lo Stato ha saputo reagire da un punto di vista giudiziario con i serissimi colpi che le sono stati assestati. Questo non deve indurre a pensare a un indebolimento definitive, perché secondo me le cose non stanno così. Si è nuovamente inabissata, tornando alla sua vecchia tradizione, però resiste e opera ancora. Uso questa metafora: non è intubata, in rianimazione, ma in corsia per accertamenti.
Io giro molto per le scuole da anni, sperando di sollecitare i giovani a prendere coscienza e consapevolezza. A loro, io dico che so sicuramente dove la mafia non è: non c’è dove non c’è denaro, perché non ha interesse; e dunque, visto che sono in arrivo in Italia duecentonove miliardi di euro che l’Unione Europea ha deciso di stanziare per aiutare il nostro Paese a ripartire, lì bisogna tenere gli occhi aperti. È indispensabile la vigilanza di tutti gli organismi istituzionali preposti al controllo della legalità: in generale, e in particolare delle infiltrazioni mafiose in tutti i meccanismi che loro ben conoscono.
Negli ultimi mesi ci sono stati mafiosi che si sono offerti di aiutare famiglie e attività commerciali in difficoltà; questo significa aver creato un legame con loro e con attività di cui inevitabilmente manterranno il controllo. A mio avviso, la ’ndrangheta attualmente è molto più forte, ma guai a ritenere morta Cosa Nostra e a sottovalutarne il pericolo.

Giuseppe Ayala (foto Wikipedia)

Ha citato i suoi incontri nelle scuole di tutta Italia, quasi una missione a raccontare in prima persona la legalità, che per i ragazzi dovrebbe essere un insegnamento fondamentale – mentre nella scuola si trascurano, sempre più, materie come l’educazione civica, la Storia. Come si racconta la legalità ai ragazzi?

Ne ho incontrati a migliaia. Toccando i tasti giusti, l’interesse che manifestano è impressionante. La gran parte dei miei incontri si conclude con questi ragazzi tutti in piedi che battono le mani: non lo vivo come un premio a me, ma lo percepisco come un modo di esplicitare la loro soddisfazione per essere stati aiutati a capire qualcosa su cui non avevano mai riflettuto. I giovani hanno bisogno di avere una guida, soprattutto considerando che nelle loro mani è il Paese che cresce meno in Europa. E io ritengo la madre di tutti i problemi in Italia essere la diffusione di una mancanza di legalità non riscontrabile in nessun altro Paese. A loro faccio un esempio: un chilometro di autostrada in Italia costa dalle tre alle cinque volte di più di quanto costi in altri Paesi europei, evidentemente per lasciare i margini per la corruzione. Oltretutto, non è affatto infrequente che i subappalti siano concessi a esponenti del mondo della criminalità organizzata. Questa serpeggiante mancanza di legalità non consente alla nostra economia di essere produttiva come altrove pur essendoci grandiose capacità imprenditoriali. La corruzione è diventata una prassi quasi ordinaria anche nel rapporto tra impresa e Pubblica Amministrazione. Spiegando questo ai giovani, io cerco di far capire loro che la legalità non è solo una scelta di tipo etico, ma che la legalità conviene. Tanto più vengono rispettate le regole, tanto meglio va anche l’economia di un Paese. La dispersione delle risorse viene contenuta dal rispetto delle regole da parte di chi è coinvolto nelle attività economiche. Il problema italiano è facile da individuare; la questione è come superarlo. L’importanza di coinvolgere il mondo della scuola sta nel fatto di puntare sulle nuove generazioni perchè crescano con una sensibilità e attenzione a fare in modo che quella madre di tutti i problemi sia meno incinta possibile! Molte scuole sono attente grazie a insegnanti e dirigenti sensibili che promuovono queste iniziative e questi confronti. Il fatto che da anni non si studi l’educazione civica è una cosa folle, con danni incommensurabili che si arrecano alle nuove generazioni: abituare i giovani ad esempio alla conoscenza dei princìpi costituzionali è fondamentale perché li facciano propri: come possiamo sperare che i giovani ci assicurino un futuro migliore se non li mettiamo nelle condizioni di fare propri determinati princìpi? Per non parlare del patrimonio fondamentale della Storia: la memoria è la condizione necessaria per comprendere il presente e quindi progettare il futuro. So che si stanno rivedendo questi programmi e mi auguro davvero che insegnamenti fondamentali vengano inclusi.

Ha citato i rapporti tra Pubblica Amministrazione e imprese. Spesso le maglie della burocrazia sono una trappola e, per uscirne, l’unica strada sembra essere la corruzione…

Il problema della burocrazia in Italia è davvero un problema grave. La burocrazia dovrebbe essere sentita dai cittadini come un’alleata: in Italia è invece un nemico, un problema da superare, pertanto spesso si ricorre alla corruzione. La famosa bustarella al funzionario altro non è che un modo per scavalcare gli ostacoli della burocrazia. Io li chiamo tentativi di suicidio della democrazia italiana, perché operati da chi ha ruoli previsti dallo Stato. La burocrazia dovrebbe accompagnare il cittadino verso la realizzazione di quel che vuole fare, aiutarlo a superare i problemi, esserne alleato; invece è un ostacolo che di problemi ne crea e, che si aggira – non voglio giustificare, ovviamente – con le “bustarelle”. Dove si vuole che vada un Paese in queste condizioni? Sono stato parlamentare per quindici anni e di questa riforma della burocrazia si è sempre parlato, ma poco si è fatto.

Ha fatto cenno alla sua esperienza parlamentare, una strada che d’un tratto ha segnato il suo impegno di vita. Lei ha raccontato di aver condiviso questa decisione con i suoi amici Falcone e Borsellino. Mi piacerebbe far conoscere ai lettori che tipo di riflessioni l’hanno portata a questa scelta.

Era l’inizio del 1992. Si sarebbe votato ad aprile e l’allora segretario del Partito Repubblicano, Ugo La Malfa, mi offrì – tramite un comune amico – il ruolo di capolista nella Sicilia occidentale. Rimasi molto sorpreso, perché non avevo mai pensato a una ipotesi del genere. All’epoca ero scortatissimo – lo sono stato per vent’anni – e la prima cosa che feci fu farmi portare dal caposcorta al ministero di Giustizia da Giovanni Falcone, per parlarne con lui. Giovanni mi guardò col suo sguardo sornione e mi consigliò intanto un appuntamento da La Malfa. E a quell’incontro andammo insieme, come fossi con fratello maggiore, come lui amava definirsi. A La Malfa chiesi ventiquattr’ore di tempo per pensarci e lo salutammo; aspettando l’ascensore – sono cose indimenticabili queste per me – Falcone mi guardò e mi disse: «Giuseppe, lo sai quali sono le scommesse che si perdono sicuramente? Quelle che non si accettano.» A quel punto lo lasciai un attimo, tornai indietro da La Malfa e gli dissi che accettavo la candidatura.
La famosa fotografia di Falcone e Borsellino sorridenti, insieme, fu scattata in occasione di una manifestazione elettorale in mio favore, il 28 marzo del ‘92! Giovanni e Paolo si esposero in prima persona pur ricoprendo ruoli delicati: Paolo era numero due della Procura di Palermo, Giovanni era direttore generale del ministero. Giovanni aveva avuto un’idea – interrotta da quel maledetto giorno di maggio: «Se vieni eletto, ti metteranno sia in Commissione Giustizia sia in Commissione Antimafia» – cosa che avvenne – «Visto che io sono al Ministero di Grazia e Giustizia, torneremo a lavorare assieme». Sarei diventato anche la sua voce stando in Parlamento: lui aveva una serie di idee estremamente importanti per fare cose buone. Tutto questo mi riempì di entusiasmo, davvero.

Nel 1988 Giovanni Falcone già parlava di mutamenti importanti nella magistratura. Se questo è vero, qual è l’eredità che la nuova magistratura ha recepito da un modo forse più silente di essere giudici?

Io credo che l’eredità di magistrati – soprattutto come Paolo e Giovanni – stia in un periodo di attività giudiziaria non paragonabile alla precedente. La sentenza del maxi-processo viene giustamente ricordata per le condanne erogate: tutti i capomafia furono condannati all’ergastolo e gli altri mafiosi si beccarono complessivamente duemiladuecentosessant’anni di carcere. Ma il dato più importante è la spiegazione approfondita della conoscenza delle logiche di questa organizzazione criminale. La conoscenza di questo fenomeno prima non esisteva. Dopo quella sentenza è stata messa a disposizione di chiunque, ma soprattutto dei colleghi più giovani che hanno cominciato a impegnarsi dopo di noi. Non voglio togliere alcun merito al lavoro di colleghi venuti dopo, ma sicuramente, con la nostra esperienza, sono stati messi in condizione di proseguire nel modo più efficace. All’inizio, noi avevamo idee molto vaghe; sapevamo che la mafia esisteva, ma qui ci fermavamo: non sapevamo nulla della gestione di queste attività criminali – non solo degli omicidi, ma anche e soprattutto del traffico internazionale di stupefacenti, della guerra di mafia e anche dei rapporti con alcuni esponenti della politica e della Pubblica Amministrazione – aspetto su cui secondo me non si è fatta luce fino in fondo. Come Pubblico Ministero ho ottenuto tanti ergastoli quanti ne ho chiesti – a Riina, Provenzano, Pippo Calò, per citarne alcuni – ma, al di là della utilità delle condanne, quel che si rileva è l’immenso patrimonio di conoscenza su cui la magistratura dopo di noi ha potuto continuare a lavorare.

Per conoscere le dinamiche mafiose di cui ha accennato, i pentiti sono stati uno strumento divenuto importantissimo nel maxi-processo.

Guardi, io mi fermerei all’espressione “collaboratori di giustizia”. Nessuno di questi uomini era pentito, parola che ha un significato preciso nel nostro vocabolario e che non attribuirei ad alcuno di essi. Erano criminali che per motivi utilitaristici hanno deciso di parlare. Il più celebre, Buscetta, ha collaborato perché gli avevano ammazzato l’intera famiglia e usò la collaborazione come unico strumento possibile di vendetta disponibile.

Ha detto all’inizio della nostra conversazione che la mafia esiste dove c’è denaro. E la mafia è arrivata ovviamente anche in Svizzera. In che modo è nata e si è sviluppata la piovra di Cosa Nostra anche in questo Paese, dove c’è un senso del rispetto della legalità molto profondo?

Io e Falcone portammo avanti un’indagine divenuta celebre: “Pizza connection”. Ebbene, il traffico di eroina era combinato in questa maniera: la morfina veniva comprata in Medio Oriente e trasportata a Palermo dove c’erano le cosiddette raffinerie – laboratori chimici dove si trasformavano la morfina in eroina. Il prodotto finito veniva mandato negli USA dalla mafia siciliana ai cosiddetti “cugini americani” mafiosi e poi collocata sul mercato americano – soprattutto newyorkese, ma tutte le transazioni finanziarie erano tutte concentrate in banche svizzere. Passammo un inverno intero a Lugano. Avemmo lì la fondamentale collaborazione della nostra collega Carla del Ponte, ma anche delle autorità svizzere; e Falcone – che in questo era molto più bravo di me – attraverso la documentazione bancaria che aveva raccolto, riuscì a individuare le prove che portarono poi alla condanna di questi trafficanti. La globalizzazione, tutto sommato, ha funzionato anche per la mafia, che ha sempre individuato le situazioni più remunerative per le azioni criminali.

Un critico cinematografico, Emiliano Morreale, ha pubblicato un interessante saggio nel quale, dalla disamina di sessant’anni di film sulla mafia, conclude che la cinematografia ha dato alla opinione pubblica un’immagine distorta di Cosa Nostra, talvolta edulcorata, altre volte comunque vittoriosa, spesso contradditoria. Circostanze di cui la mafia avrebbe anche approfittato.

Guardi, sono davvero d’accordo, spesso è stata data una rappresentazione di questa organizzazione criminale non dico eroica, ma certamente non legata alla realtà tremenda di Cosa Nostra. Quanti non hanno simpatizzato con don Vito Corleone?

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