Haiti: la rivolta di chi è stato lasciato indietro a causa della globalizzazione

di Joëlle Herren Laufer, di HEKS/EPER.

(Traduzione di Jessica Grespi)

Rosny Desroches, grazie alla sua esperienza in diverse posizioni di responsabilità nel campo dell’istruzione, tra cui quella di ministro, dirige oggi l’Iniziativa della società civile. Ci fornisce la sua analisi della crisi socio-politica che Haiti sta attraversando.

Haiti è di nuovo nel marasma politico… Come al solito oppure oggi è diverso?

Effettivamente, le manifestazioni hanno preso una direzione che ad Haiti ancora non conoscevamo. Con il termine “Peyi lòk” (il Paese bloccato) si indica il fatto che a livello di scuole, salute e aziende, tutto è fermo. Questa situazione sta già causando gravi problemi per le persone malate che hanno bisogno di cure, donne incinte, studenti e insegnanti. Tutto ciò genererà enormi problemi economici. La crescita prevista per quest’anno era già molto bassa – 0,1% -, quindi sarà indubbiamente negativa.

Ma cosa chiedono i manifestanti?

Chiedono le dimissioni del presidente Jovenel Moïse, che non ha nemmeno raggiunto tre anni sui cinque previsti del suo mandato. La sua mancanza di esperienza politica e le promesse non mantenute, come per esempio la fornitura di elettricità 24 ore su 24, hanno rapidamente distrutto la sua credibilità. Ha anche ereditato una situazione difficile, soprattutto a livello economico. Dopo il terremoto del 2010 e il ciclone Matthew del 2016, il Paese è potuto andare avanti solo grazie alle massicce iniezioni della comunità internazionale. Vi è inoltre l’accordo Petrocaribe con il Venezuela, che forniva ad Haiti benzina con la possibilità di tenere il 60% dei ricavi della vendita sotto forma di prestito per dei progetti di sviluppo.

Cosa ha dato fuoco alle polveri?

C’è un grande malcontento tra la popolazione per l’aumento dell’inflazione e per l’enorme calo del potere d’acquisto, sia da parte delle masse popolari che della classe media. Jovenel Moïse ha attaccato figure potenti che detenevano monopoli e godevano di privilegi e contratti lucrativi, come la fornitura di elettricità o la costruzione di strade. Questi ultimi si stanno vendicando unendosi a coloro che chiedono il conto per l’uso improprio dei fondi Petrocaribe e incolpano il presidente di tutti i mali.

Da Santiago a Baghdad passando per Algeri o Hong Kong, la gente scende in strada. La rivolta haitiana rientra in questo movimento?

Non so se c’è un legame tra Iraq, Cile, Haiti e addirittura i gilet gialli in Francia, ma sembrerebbe che tutte queste crisi siano condotte dai perdenti della globalizzazione. La mancanza di strumenti professionali e sociali per un’intera fascia della popolazione causa squilibri sia all’esterno che all’interno dei Paesi. Ad Haiti, la corruzione è il fattore scatenante. Il contrabbando rende impossibile tassare 400 milioni di dollari alla frontiera. Inoltre, l’economia controlla la politica. Sono le grandi imprese, non i partiti, questi ultimi troppo deboli, a finanziare le campagne politiche. E coloro che salgono al potere sono in debito con loro.

Cosa potrebbe aiutare Haiti ad uscire dalla crisi?

Ad Haiti abbiamo un grosso problema di coesione. Qual è il legame tra un mercante che vende manghi sul bordo della strada e una ricca donna al volante della sua 4×4? Siamo il secondo Paese con più disuguaglianze nel mondo, dopo il Sudafrica. Le persone non sentono di appartenere allo stesso mondo. Chi ha soldi sa che può sempre averla vinta anche se non rispetta la legge. Colui che non ne ha si sente vittima del sistema e non esita quindi a ricorrere alla truffa per sopravvivere. D’altronde ci sono due culture economiche diverse. Quella legata alle società occidentale, che accumula, investe e si cura del sapere. Poi c’è quella vicina alla mentalità africana, che condivide, ha proprietà collettive, non ha ricchezze e incoraggia la dipendenza dalla famiglia. Sarebbe necessaria un’armonizzazione di questi due mondi di valori per rafforzare la coesione nazionale e permettere una maggiore condivisione della ricchezza e maggiore obbedienza alle leggi.

Quando sentiamo parlare di Haiti, spesso si tratta di una serie di scandali legati ai presidenti…

Culturalmente, la popolazione haitiana non è molto favorevole alle elezioni, ma è incline a rovesciare i presidenti! Senza tener conto dei presidenti provvisori, ho contato 37 presidenti tra Dessalines, nel 1804 con l’Indipendenza di Haiti, e Martelly, nel 2017. Ventisei sono stati rovesciati. Degli undici rimanenti, solo tre hanno potuto completare il loro mandato e organizzare le elezioni! Il modello della nostra cultura politica si traduce quindi così: si rovescia il governo e si instaura un governo provvisorio favorevole all’opposizione. È una lotta di potere permanente; è inconcepibile che la persona al potere organizzi le elezioni.

Come instaurare quindi una democrazia funzionante?

C’è un grosso lavoro di educazione civica e politica da fare, oltre a un lavoro di rafforzamento dei partiti politici. Senza contare che ad Haiti l’arma più efficace contro un avversario politico è distruggere l’economia per renderlo responsabile di tutto ciò che accade. Invece di chiedere le dimissioni del presidente Jovenel Moïse, bisognerebbe fargli pressione affinché faccia qualcosa di buono e prepari le elezioni. Poiché è già indebolito, anticipare le elezioni nel 2020 potrebbe essere una soluzione. Sarebbe meglio accorciare la durata del mandato per poter lasciare il popolo votare. Solo così il prossimo presidente godrà di una certa legittimità. Qui però la gente aspetta il “Messia” e preferisce incolpare un solo uomo di tutti i mali.

E la società civile? Che posizione assume di fronte a queste mobilitazioni?

Purtroppo la società civile è molto divisa. Tutto ciò che ho appena detto non rappresenta l’opinione della maggioranza. Tutto è preso in modo molto emotivo, è tutto da rivedere.

Si dice che il 60% degli haitiani vive con meno di due dollari al giorno. Cosa impedisce ad Haiti di uscire dalla povertà estrema?

Prima di tutto, la mancanza d’istruzione. L’istruzione basata sui libri non risponde alle esigenze di sviluppo. La riforma Bernard degli anni ’70 ha introdotto il creolo e un’introduzione alla tecnologia e alle attività produttive. La prima ha attecchito bene, la seconda no. Le nostre fabbriche impiegano dominicani e filippini per compiti tecnici perché non abbiamo abbastanza proposte di formazione in questo settore. La nostra politica pubblica, che privilegia le importazioni rispetto alla produzione locale, è pigra. Per un cambiamento bisognerebbe migliorare la cooperazione tra il governo e gli imprenditori.

Haiti può farcela da sola o ha bisogno di un aiuto esterno?

L’aiuto esterno è sempre necessario, ma non dovrebbe essere di sola assistenza. Quest’ultima attualmente si sostituisce all’impegno nazionale in materia di salute e di istruzione. Il Paese avrebbe piuttosto bisogno di un sostegno per prepararsi a maggiori investimenti, maggiore produzione e una riforma dello Stato.

I vostri figli sono preoccupati per il futuro? Considerano l’idea di lasciare il Paese?

I miei figli hanno fatto i loro studi in Svizzera e ora è il turno dei miei nipoti. Li ho sempre incoraggiati a tornare. Si fanno molte domande di questi giorni. Tutti i giovani formati vogliono trovare il loro posto nella società. Ma ad Haiti è difficile perché non si vedono soluzioni né leader promettenti. Credo però che queste siano delle crisi di crescita. La mentalità di “Chwal leta se chwal papa” (il cavallo dello Stato è il cavallo di mio papà) o “Vole leta se pa vole” (rubare allo Stato non è rubare) ha fatto il suo tempo. Le rivolte in corso dimostrano che c’è una reale consapevolezza del fatto che la corruzione ci influenza tutti e deve essere combattuta. I prossimi presidenti non potranno più fare come in passato. Con la dittatura di Duvalier il popolo era sottomesso. Ora è il contrario, è il presidente che diventa il capro espiatorio! Abbiamo bisogno di restaurare l’equilibrio e di sviluppare il senso del rispetto per la funzione di presidente. Grazie alla società civile – che 20 anni fa praticamente non esisteva – il popolo si interessa alle finanze pubbliche, sei anni fa invece nessuno ne parlava. C’è un risveglio della popolazione, è un buon segno. Ci vorrà del tempo, perché uno Stato può cambiare solo quando la sua popolazione sviluppa la sua conoscenza e la sua coscienza. Ma non mi scoraggio, anche se so che non vedrò il giorno in cui Haiti troverà la sua strada.

 

Rosny Desroches. Nato nel 1943 a Cap-Haïtien, Rosny Desroches è laureato in Filosofia (Haiti) e in Lettere e Teologia (Ginevra), ha ricoperto diversi incarichi di responsabilità nell’insegnamento ad Haiti ed è stato per un certo periodo anche Ministro dell’Educazione. Attualmente è direttore esecutivo dell’Iniziativa della società civile e membro del Comitato direttivo dell’Osservatorio dei cittadini per l’istituzionalizzazione della democrazia.

 

Foto di Sabine Buri

 

 

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