I due infiniti dell’incubo

Non mi va di sparare proiettili di verità sulla guerra, e scimmiottare tutti quegli esperti di geopolitica che, spuntati come funghi, hanno soppiantato gli esperti virologi i quali, negletti ormai dalla massa televisiva e dai dispensatori di like, si ritrovano – ahi loro – nell’invisibilità.

Eppure per almeno due anni sono stati al centro della credulità pubblica. Ora, confesso, faccio fatica a ricordarne il nome.

Mi accorgo di stare scivolando nell’ironia, ma è un ridicolo tentativo di sorridere per non piangere.

Veramente non credevamo che la guerra avrebbe preso questa piega.

Mi viene in mente una frase di Luis Ferdinand Céline quando, pur ripensando a tutti i matti che aveva conosciuto, dubitava “esistano altre autentiche realizzazioni del nostro io più profondo, che non siano la guerra e la malattia, questi due infiniti dell’incubo”. La frase si trova in una delle più alte espressioni della narrativa del ‘900, quel Viaggio al termine della notte del 1932 che già nel titolo prefigurava il tragico delirio della guerra mondiale che sarebbe pandemicamente esplosa di lì a pochi anni.

Eppure di libri di guerra ne ho letti tanti, soprattutto da giovane, Tolstoj, Remarque, Grossman, Pasternak, Primo Levi, Hassel, Hemingway; i racconti dei miei nonni sono ancora vivi nei miei ricordi di ragazzino, e sono sempre davanti a me le immagini di film come Il Dottor Stranamore, Apocalipse now, Full Metal Jacket, Urla del silenzio e tutti quelli sul day after. Dovrei essere ormai assuefatto.

In realtà mi paiono più assuefatti i nostri ragazzi, forse perché quello che vediamo è il concreto reale del virtuale, una concretizzazione nella realtà di quei videogiochi dei quali essi sono espertissimi, agguerriti ammazzasette del digitale. Una volta chiesi a mio figlio quale fosse lo scopo del videogioco che stava facendo su una di queste piattaforme: “Ammazzare più gente possibile”, rispose tranquillo.

Ma i nostri ragazzi sanno distinguere realtà e virtualità: sono cresciuti e vivono in un ambiente democratico che, salvo eccezioni, è un vaccino contro quella malattia del vivere civile che è la violenza della sopraffazione, la realizzazione dell’ideale del nulla.

Ammazzare più gente possibile è quello che sta facendo adesso l’esercito russo, non importa chi siano quelli da colpire, donne bambini anziani: le bombe sugli edifici residenziali sulle stazioni sui teatri, su tutto ciò che può essere un rifugio dall’annientamento, ricordano tanto quelle delle stragi fasciste che tentato d’infettare il nostro paese e la democrazia, da piazza Fontana in poi.

La democrazia o, meglio, la coscienza della democrazia, non è qualcosa che viene dal cielo, né una merce di scambio in petrodollari, non è materia da corso di aggiornamento aziendale. Il senso della democrazia si acquisisce e si educa con secoli di sacrifici, di orrori, d’indicibili carneficine.

La coscienza della nostra storia, che la cultura e l’educazione contribuiscono a formare, non è del tutto immune da nostalgiche ricadute nell’infinito dell’incubo. Come il virus che negli ultimi due anni ha soffocato la vita di molti, e con il quale dobbiamo convivere scartando negazionismi e populismi cialtroni, così dobbiamo convivere con quel gene virale che è l’umana predisposizione alla guerra.

Kant diceva che “la guerra non ha bisogno di avere un motivo particolare che la faccia nascere, sembra invece connaturata all’uomo e presentarsi anche come un qualcosa di nobile […] tanto che il coraggio guerresco viene giudicato […] di grande immediato valore, non solamente quando c’è la guerra, ma perché fa che ci sia la guerra”.

Sulle ali dell’entusiasmo per la Pace di Basilea del 1795, con la quale finalmente la Prussia riconosceva lo stato rivoluzionario francese, Kant nello stesso anno scrisse Per la pace perpetua, un progetto di carattere filosofico in cui si stabilivano le linee fondanti del vivere civile tra gli stati secondo i principi illuministici: Diritto interno (lo Stato deve repubblicano e democratico), Diritto internazionale (fondato su un federalismo di liberi Stati), e Diritto cosmopolitico (che sanciscono l’ospitalità universale). Kant era un ottimista.

Hegel era un pessimista. Egli, che nel 1805 aveva visto Napoleone entrare a Jena come invasore descrivendolo come spirito del mondo, sosteneva invece che la guerra non solo concorre alla risoluzione delle controversie, ma esprime un valore morale perché “preserva i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o addirittura perpetua” (Lineamenti della Filosofia del Diritto). Questo la dice lunga sulla storia dello stato prussiano fino al III Reich.

Kant era un ottimista a pensare che il diritto potesse trionfare in nome della ragione. Saremmo portati dunque a condividere il pessimismo di Hegel. Ma, “rispetto a Hegel – commenta Antonio Gargano – purtroppo noi, visti i dati di fatto della storia del Novecento, dovremmo essere ancora più pessimisti, almeno fino a quando la federazione mondiale degli Stati, cui dovrebbe tendere l’ONU, non si doterà di poteri sovrani”. Ora siamo dopo il Novecento.

Immanuel Kant era nato a Königsberg, allora capitale della Prussia Orientale. Oggi ha preso il nome di Kaliningrad, capoluogo dell’omonima Oblast, exclave sovietica e poi russa tra Polonia e Lituania. Kant è qui sepolto. C’è una sua statua davanti alla quale i neo sposi russi vanno a fare le tradizionali foto di rito, come a Mosca davanti al mausoleo di Lenin. Magari le mandano pure alle mamme in chissà quali posti sperduti della Grande Madre Russia. Come i giovani soldati russi nei primi giorni dell’invasione.

Chissà quali incubi avrebbe Kant se solo potesse immaginare che a qualcuno potrebbe venire di mente di annettere la sua Königsberg e scatenare un’altra guerra.

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