I piatti della memoria

Hanno fatto la storia della gastronomia italiana

di Maria Moreni

Per lo scrittore francese Marcel Proust, il profumo del tempo perduto era quello de “le petite madeleine”, un soffice dolcetto diventato simbolo della memoria involontaria evocata da un sapore. Oltre a farci tornare indietro nel tempo, il recente ‘Piccolo atlante dei cibi perduti: storie di cucina dimenticata’ (Slow Food) di Alberto Capatti, uno dei più autorevoli storici di gastronomia italiana, riporta in vita e nei nostri ricordi, attraverso ottanta schede-racconto, cibi e ricette del Novecento. Piatti apparentemente scomparsi, realizzati con ingredienti strani, e ricette a volte bizzarre, che sembrano attinti da un negozio di antiquariato.

Nel volume sono proposti cibi oggi imprevedibili, se non improbabili, dalle varianti infinite, capaci, però, un tempo, di rispondere a bisogni specifici di un determinato periodo storico. Non mancano ingredienti decisamente inusuali e dai nomi curiosi quanto, a volte, misteriosi quali abalon (ostriche giganti cinesi, note, nell’area del Mediterraneo, come orecchie di mare), bighelloni (non solo “fannulloni”, “perditempo”, ma anche una pasta fatta in casa), broccioli (pesci di acqua dolce) e  brustulli (semini di zucca salati e abbrustoliti), per non parlare di quelli parecchio fantasiosi come le uova di pavoncella, suggerite per una cena galante in un ricettario afrodisiaco del 1910 o, ancora, uno yogurt preparato ad hoc per curare una sonora sbornia. Stranezze culinarie delle nonne o di qualche ristoratore particolarmente creativo, tra scatole e imballaggi anch’essi ormai caduti in disuso, ma pur sempre riflessi di abitudini alimentari, sapori e accostamenti dimenticati che danno continuità alla nostra storia e ci permettono di intuire non soltanto che cosa siamo stati, ma soprattutto che cosa siamo e che cosa saremo. Le fonti consultate e citate dall’autore sono le più varie: ricettari iconici della tradizione tricolore e saggi contemporanei sono lo spunto per recuperare i cibi dimenticati che spaziano dall’acqua (e dal modo in cui viene pesata nelle ricette). Ma troviamo anche il riferimento al “Dizionario delle cose perdute” del celebre cantautore, Francesco Guccini, nato e cresciuto nella provincia modenese, dove la gente si faceva i liquori o il caffè d’orzo in casa, come avveniva e continua ad accadere tutt’oggi, del resto, in molte zone rurali della Penisola. “Le biografie, come la sua, ci danno a pezzi e bocconi una visione di quanto noi o altri abbiamo vissuto forse da piccoli e smarrito”, commenta Capatti. Non mancano nemmeno preparazioni bizzarre come la sogliola al ferro da stiro, risalente, in realtà, solo al 2005. L’ultima parte del libro, poi, è tutta dedicata alle nonne citate nel titolo, “consacrate ad anima autentica della cucina di tradizione italiana e custodi imperiture di piatti altrimenti mai consegnati alla nostra memoria”. Vi proponiamo ora tre gustose chicche gastronomiche tratte dal libro di Slow Food.

Le fettuccine Alfredo

Nei primi anni del Novecento, come ricorda Luca Cesari nella sua “Storia della pasta in dieci piatti” (2021), le fettuccine, impastate con farina, tuorli d’uovo, un bicchier d’acqua, erano la specialità di Alfredo Di Lelio, gestore di un’omonima osteria in via della Scrofa, a Roma. Questo mago dei fornelli le condiva con parmigiano e rigirava nel piatto di fronte al cliente. Fu il servizio originale a creare una certa cattiva fama attorno al piatto, che divenne rinomato e attirò numerosi turisti da ogni parte del mondo. Tra di loro ci furono pure due noti attori del cinema muto, Mary Pickford e Douglas Fairbanks, che in viaggio di nozze le scoprirono e ne furono entusiasti, a tal punto da regalare al ristoratore due posate d’oro con tanto di dedica, in cui definivano Alfredo “re delle fettuccine”. La fama di Di Lelio arrivò anche oltreoceano. Tutti, ormai, non vedevano l’ora di andare nel suo locale non solo per assaggiare la sua specialità, ma per vederlo all’opera in un vero e proprio spettacolo di enogastronomia, come fu definito dai testimoni e critici dell’epoca, quando Alfredo in persona si presentava ai tavoli dei commensali e rifiniva sul momento, con l’estro del teatrante, la sua pasta doppio burro o doppia panna. A Roma, in Italia, il suo piatto-simbolo resta un ricordo oggi sempre più cucinato solo da storici e gastronomi, soprattutto dopoché, nel dopoguerra, con l’arrivo degli americani, le nuove generazioni si appassionarono alla carbonara. Ma negli Stati Uniti o in Canada, ancora adesso, si possono trovare le “fettuccine Alfredo” sia nelle carte di molti ristoranti, quasi come garanzia di qualità, sia in preparazioni già pronte sugli scaffali della grande distribuzione.

Bucato-minestra

La ricorda il grande attore Ugo Tognazzi nel suo libro ‘L’abbuffone’: “Tutte le nonne fanno la stessa minestra. ‘Ma come la faceva mia nonna!’ dicono tutti”. Lui l’ha rifatta, riaggiustata e si è raccomandato di rifarla proprio “alla vecchia maniera”, ovvero divertendosi a perder tempo in cucina tutti insieme. Gli ingredienti? Si comincia con “mezz’etto di pancetta, un ciuffo di prezzemolo, due spicchi d’aglio, mezzo rametto di rosmarino, il tutto tritato finemente con la mezzaluna”. Poi si aggiunge la conserva di pomodoro che dà color rosso cupo e con le patate tagliate a pezzettini, quindi raccolte col mestolo e schiacciate. Riso o pasta indifferentemente e qualche cucchiaio d’olio. Per completare del provolone grattugiato. Il tocco che faceva la differenza, però, per Tognazzi, era la presenza di un commensale in particolare, il nonno. “Si sedeva al tavolo e restava nella stessa posizione di quando stava in piedi, a esse, solo un po’ più basso di statura. La faccia nera, ferma a venti centimetri dal tavolo, e davanti la minestra arancione. Gli occhi rivolti costituzionalmente al piatto, la mano al cucchiaio, e il ritmo cadenzato del suo tirar su, mangiando. Un risucchio monotono, sempre uguale. Uno sbrodolìo che gli serviva forse per intiepidire il bollore della minestra, e per godere di quel vapore che si fermava sulla sua faccia inumidendola. Poi, improvvisamente, il silenzio”. Via con il secondo giro di mestolo. “La cucina della nonna continuava dunque a tavola sino a che il nonno se ne andava «con la sua bella faccia pulita, fresca di bucato-minestra”, concludeva il famoso artista.

Pane e cipolla
A Milano, nel secondo dopoguerra e nel periodo a ridosso del boom economico, si nutrivano così gli emigranti del Sud, lavoratori alla giornata. L’espressione è rimasta come sinonimo di miseria e ristrettezze. “Pane e cipolla”, però, è entrato anche nel “Ricettario di cucina povera” di Angela Molteni, del 1984: pane raffermo, con quattro cipolle grosse, pronto a essere abbrustolito, a dadini. Vi stupirà, ma ancora oggi questo cibo impazza su Google e nei motori di ricerca. Ai nostri giorni ci sono varianti infinite di prodotti di panificazione ottenuti con farine di diverso tipo, per ogni palato e a fronte di ogni esigenza salutistica. Quanto alle cipolle, ci sono tipologie pregiate in commercio. Ma non è quello il punto. È anche un modo per non far cadere nel dimenticatoio antichi pasti in cui si ingoiavano anche parecchie lacrime. Ma poi i tempi sono cambiati e le situazioni, dopo tanta fatica, sono migliorate. È una maniera per non scordarsi delle proprie radici, che non andrebbero mai messe da parte. E che, spesso, ci ricordano che anche i momenti più difficili passano, ma a volte sono inevitabili. E vale la pena affrontarli, proprio per poter stare meglio successivamente. A proposito di pane, nel “Piccolo atlante dei cibi perduti” di Capatti troviamo anche il “pane perduto”, presente nelle trasmissioni radiofoniche registrate nel volume “Pronto… Qui Lisa Biondi”, pubblicato nel 1972. Erano gli anni in cui, in Italia, cominciavano il caro petrolio e l’austerity: il recupero e le ricette anti-spreco, allora, avevano un ruolo fondamentale, quello che sono tornati ad avere nell’ultimo biennio in concomitanza della pandemia. Il “pane perduto” era un dolce estivo, a base di pane raffermo, latte intiepidito con zucchero e scorza di limone, 1 uovo, burro o margarina vegetale, zucchero a velo. Tante merende dell’infanzia della fine del secolo scorso avevano un gusto simile. Ed erano davvero speciali, non solo perché genuine e casalinghe, ma anche perché erano preparate dalle mani delle nonne, le stesse che ci accarezzavano e ci facevano sentire protetti e al sicuro.

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