Idrogeno, se ne parla moltissimo, ma è la soluzione?

Di Marco Nori, CEO of Iselfin 

La transizione energetica è un tema che combina l’attualità di essere “di moda”, alla necessità di essere rapida ed efficace, pena il raggiungimento di un punto di non-ritorno in cui i problemi ambientali diventano irreversibili. Dopotutto, viviamo in quello che è definito “l’antropocene”, un periodo storico in cui, per la prima volta, l’azione dell’uomo è così potente da riuscire a modificare l’ecosistema del pianeta. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità, diceva un famoso fumetto.

La crisi economica generata dalla pandemia ha innescato una corsa agli investimenti: i governi del mondo hanno stanziato enormi quantità di liquidità per sostenere l’economia e il lavoro e hanno deciso di spendere questi soldi puntando sulla transizione energetica. Quello che per decenni era stato un settore economicamente controverso, in cui l’innovazione tecnologica soffriva di una cronica mancanza di fondi e di volontà, è diventato improvvisamente un mercato più dinamico e proficuo. 

Tra le diverse energie rinnovabili più seguite, come l’eolico e il fotovoltaico, ce n’è una che ha stimolato particolarmente l’interesse negli ultimi mesi, dopo molto oblio. Non è tecnicamente “rinnovabile”, ma sicuramente è “sostenibile”: è l’idrogeno. 

La sua particolarità è che, al contrario ad esempio del fotovoltaico che è rinnovabile per definizione, la sostenibilità dell’idrogeno dipende da come viene prodotto. Perché per produrre idrogeno, ci vuole energia. Dunque, l’idrogeno ha una paletta di colori: è grigio se viene prodotto con combustibili fossili, blu se ha una componente di rinnovabili, verde se è prodotto usando esclusivamente energia rinnovabile – c’è anche il viola che sfrutta l’energia nucleare.

In sé, una volta convertito in energia e dunque bruciato, l’idrogeno non ha alcuna emissione inquinante, se non quella con cui è stato a sua volta prodotto, dunque l’idrogeno grigio non inquina meno del petrolio, ma solo sposta l’emissione di CO2 dal consumo finale alla centrale di produzione. Tuttavia, l’effetto per l’ecosistema è identico. 

Qual è, allora, il valore aggiunto dell’idrogeno, e perché è così in voga? La risposta è che, se usiamo l’energia elettrica delle rinnovabili per produrre idrogeno, una volta liquefatto, l’idrogeno è facilmente stoccabile, al contrario dell’energia elettrica in forma pura che invece è molto volatile. 

Questa caratteristica ne fa uno strumento molto promettente su cui l’Unione Europea sembra puntare. Nella “Hydrogen Strategy” (2020) la UE promette una produzione annuale di idrogeno da fonti rinnovabili di un milione di tonnellate entro il 2024, che arriveranno a 10 milioni nel 2030. È un’obiettivo ambizioso, lo ammette anche la presidente von der Leyen, “ma realistico”, spiega. 

Il discorso della sostenibilità ambientale è da contestualizzare. Questi investimenti enormi non sono fatti solo per la salute dell’ecosistema. Il primo obiettivo era quello di definire un piano di investimenti che sostengano l’economia e il lavoro, diciamo di “sostenibilità sociale”, e quindi la UE ha chiesto agli stati membri di individuare i luoghi dove “l’idrogeno crei crescita e occupazione”. Perché di questo si tratta, di occupazione, di non lasciare che il sistema collassi sotto la spinta di un’emergenza mai vista prima. 

Purtroppo altrettanto volatile può essere l’entusiasmo con cui se ne parla. È una questione di realismo tecnologico. L’idrogeno ha potenzialità immense, però occorrono dei distinguo. Per il momento la tecnologia favorisce l’uso in larga scala, per esempio negli apparati industriali o nei grandi mezzi. È più facile che un treno possa funzionare a idrogeno, come Snam sta sviluppando con Ferrovie dello Stato, che un’automobile, che invece può beneficiare di un progresso della tecnologia delle batterie da installare in uno spazio ridotto – un problema di spazio che le grandi industrie non hanno. Nel 2018 circolavano soltanto 11.200 automobili a idrogeno in tutto il mondo, nello stesso anno le auto elettriche a batteria erano 5,1 milioni. Da allora il divario non ha fatto che aumentare. Inoltre, le case automobilistiche sembrano aver rinunciato a sviluppare automobili a idrogeno, solo tre modelli sono rimasti in commercio, una Honda, una Toyota e una Hyundai, mentre l’offerta di auto elettriche è esplosa. 

C’è poi la questione, cruciale, del valore, e quindi la delicata bilancia della domanda e dell’offerta, i costi di chi brucia idrogeno per fare funzionare le industrie e i profitti per chi lo produce. Per ora l’”idrogeno verde”, è costoso da acquistare, o pregiato da rivendere sul mercato, dipende dai punti di vista, ma stiamo oggettivamente muovendo i primi passi di uno storico cambiamento di paradigma tecnologico e le incognite sono moltissime. Il prezzo dell’idrogeno verde fluttuerà enormemente nel futuro, in base alla disponibilità, alla resa delle altre energie e all’avanzamento tecnologico che deciderà la direzione dell’energia che massimizza la resa. 

L’idrogeno sarà un protagonista della transizione energetica, ma forse non sarà così vicino al consumatore finale come si potrebbe dedurre dai discorsi che ascoltiamo sui media in questi mesi. Ma sicuramente il consumatore finale apprezzerà la qualità dell’aria che respira quando il mondo funzionerà di più a idrogeno. 

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