Il capo e la folla

di Edoardo Pivoni

Nel 1945 uscì in Italia il saggio La Folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide di Guglielmo Giannini. Era un trattato politico di un commediografo e giornalista romano di origini napoletane e britanniche, fondatore del Fronte dell’Uomo Qualunque e del suo omonimo settimanale, primo embrione di partito “populista” italiano del secondo dopoguerra, antenato della Lega Nord o del Movimento 5 Stelle, che si proclamava fedele ad uno Stato liberale “amministrativo” anticomunista, che però non facesse più alcuna guerra e si disinteressasse a qualsiasi complessità ideologica del mondo. Giannini ripudiava, per quanto avesse rigettato anche il Ventennio, dopo aver perso un figlio in guerra (mentre agli inizi del secondo conflitto aveva definito Mussolini il “nuovo” Lorenzo il Magnifico), la classe politica uscita dalla Resistenza che, a suo dire, avrebbe voluto imporre un nuovo regime. La radice stessa del Capo e di un regime per il commediografo appartenevano in buona parte al socialismo e alla sinistra:

«Noi udimmo Mussolini, in una delle sue storiche frasi, della linea solita degli uomini di sinistra…perché Mussolini è vostro, mica nostro…».

Il suo saggio cercava nei millenni una giustificazione alla necessità di una “nuova” società liberale, individualista, ridotta ad amministrare l’esistente, “apolitica”, parteggiando per quella “Folla”, cioè il popolo, che subisce sempre le decisioni di pochi e vuole solo la tranquillità del proprio “giardino di casa” contro l’oppressione di uno Stato fiscalmente rapace, spesso incarnato dall’ego di un Capo, il tiranno. Questo è sempre stato uno dei mantra del liberalismo classico, da applicare il prima possibile all’uomo qualunque appunto, della strada, che avrebbe ben visto una protezione al suo “piccolo mondo antico”. L’antifascismo era ormai superato con la Liberazione e i qualunquisti stabilirono che tutti gli italiani fossero indistintamente innocenti e senza alcuna colpa.

Giannini sapeva bene che il suo partito poteva intercettare i sostegni in tutti quegli ex fascisti, cattolici, industriali e appartenenti al ceto medio, terrorizzati da uno slittamento del paese a sinistra, ma fu la Democrazia Cristiana a raccogliere i voti moderato-conservatori. L’Uomo Qualunque non poté far altro che accodarsi ai cattolici, con continue scissioni a causa delle infiltrazioni monarchiche e neofasciste, che lo stesso “Anti-Capo” Giannini deprecava, ma non poté andare diversamente, essendo un partito legato alla sua persona.

Dopo gli effimeri successi elettorali nazionali e locali, e aver proposto la prima donna come capo provvisorio dello Stato repubblicano, Ottavia Penna Buscemi, il partito patì un rapido declino che si consumò col suo scioglimento nell’inverno 1948. Alla vigilia del referendum del 2 giugno 1946, l’Uomo Qualunque si proclamò agnostico alla scelta, nonostante fosse un partito votato perlopiù da fedeli meridionali a Casa Savoia. D’altronde, dopo l’armistizio, Giannini aveva militato nel Partito repubblicano scrivendo, nella Roma occupata dai tedeschi, per il giornale clandestino «La Voce Repubblicana» e progettando nel maggio 1944, ad un mese dall’entrata delle truppe alleate nella Città Eterna, di occupare il Campidoglio e proclamare la Repubblica italiana, progetto fallito a suo dire per i dirigenti del PRI a cui rispose: «La Repubblica Romana [del 1849 ndr] non fu fatta per paura». La sua critica al concetto di capo politico era legata alla critica della nascente partitocrazia, agli “upp”, cioè uomini politici professionali, dei burocrati parassitari che vivevano a danno di chi la ricchezza se la produceva.

Nella posizione di Giannini, giornalista e commediografo, leggiamo la critica al concetto nascente di partitocrazia.

Il Re d’Italia era un Capo tradizionale, ma in quella situazione storica rappresentava un’istituzione antica e in decadenza, che Giannini indirettamente rispettava molto di più della moderna democrazia “antifascista”, ritenuta una vera e propria truffa, un inganno. Così come rispettava grandemente Pio XII e il Vaticano, non ravvedendovi nessuna necessità di critica come Capo rispetto a figure temporali più moderne, tanto da affermare ad un comizio a Roma nel novembre 1946: «[…] Noi abbiamo il nostro Papato, noi abbiamo il nostro Papa e ce lo teniamo e lo difendiamo e baseremo la nostra politica su questo fatto: perché oggi, che non c’è più la monarchia in Italia, l’unico simbolo, l’unica gloria che c’è, è ancora il Papato. […]»

Emerge dunque la contraddizione nella stessa ideologia di Giannini su quali Capi fossero più accettabili di altri, riconoscendo vestigia di gloria e di vanto in istituzioni tradizionali e spirituali come la Corona o il Pontefice, a seconda dell’indirizzo del proprio elettorato. La nascita della Repubblica non aveva modificato gli equilibri politici e il conservatorismo della società italiana, che mantenne i germi di quel populismo.

 

 

 

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