Il caso di Piacenza: da caso di malasanità a modello contro il Coronavirus?

Dalla “clinica degli orrori” agli errori nelle cliniche. E non solo. Quando Selvaggia Lucarelli, il 18 marzo, per il Fatto Quotidiano ha scoperchiato il vaso di pandora sulla Casa di Cura di Piacenza, presentando il caso – poi ripreso da altre testate con aggettivazioni ben più che colorite – di alcune morti sospette a ridosso dei primi di marzo, quanto avvenuto all’interno della struttura sanitaria piacentina sembrava un caso isolato. Eppure, a distanza di non più di un mese, risulta addirittura difficile circoscrivere con un numero preciso le Rsa che hanno aperto a malati Covid, fornite sotto la lente delle inchieste giornalistiche, se non direttamente giudiziarie. Dal Pio Albergo Trivulzio di Milano alla Casa Serena nel comune di Le e, una delle più importanti strutture per anziani della val Seriana, così come in innumerevoli altri casi analoghi in tutto il Nord Italia, il Coronavirus si è di uso a macchia d’olio tra la popolazione ricoverata, arrivando addirittura a toccare tassi di letalità – così spiega la direttrice sanitaria di Casa Serena Melania Cappuccio, intervistata da Report – pari al 10% di tutti i pazienti ospita- ti, 500 morti su 5000 ospiti.

Cosa succede dunque nelle case di cura e in quelle per anziani? Perché in tanti casi il contagio si è di uso così rapidamente? Chiamare in causa solo la negligenza o la responsabilità delle singole direzioni sanitarie risulterebbe riduttivo o fuorviante senza tenere in debita considerazione il quadro d’insieme. Un quadro, quello della gestione dell’epidemia, costellato di errori iniziali di sotto- valutazione purtroppo largamente generalizzati, che in alcuni casi non hanno risparmiato nemmeno le gestioni a indirizzo pubblico.

Tanto che nell’Emilia-Romagna di Bonaccini, finora indenne al ciclone delle critiche a differenza della vicina Lombardia – che paga il pegno della progressiva opera di privatizza- zione della sanità – solo lo scorso 23 marzo un comunicato firmato dalle segreterie dei sindacati confederali (Cgil, Cisl e Uil) chiedeva di far chia- rezza su una comunicazione diramata dalla Regione stessa alle aziende sanitarie locali, in cui si indicava di far andare al lavoro anche il personale sanitario risultato positivo al Covid qualora asintomatico, per evitare il collasso del sistema. Un vero e proprio controsenso, se paragonato alle contestuali ordinanze regionali restrittive sulla libertà di movimento, specie se accettiamo la versione del direttore del laboratorio di virologia dell’Università di Padova Andrea Crisanti, grazie alla cui intuizione di tamponare a tappeto tutta la popolazione di Vo’ Euganeo, si era al contempo arrivati a scoprire che per ogni paziente sintomatico, se ne trovavano almeno altri tre asintomatici con cui il primo era stato in contatto. Una rivelazione che ha permesso di salvare la vita a innumerevoli persone in Veneto, dove la curva dei contagi non ha mai raggiunto le cifre lombarde ed emiliane. Come a Piacenza, la più colpita di tutta l’Emilia-Romagna, dove si piangono già più di 700 vittime su un totale di oltre 3250 contagiati nelle statistiche ufficiali. E dove, come se non bastasse, il numero reale dei contagi, causa la penuria di tamponi e l’impossibilità dunque di certi care casi asintomatici o lievi, risulterebbe largamente sottostimato – secondo il presidente dell’ordine dei medici piacentino Augusto Pagani – rispetto ai casi reali, stimabili no a 10 volte il valore diramato dai bollettini ufficiali.

Paga, Piacenza, il lock-down arrivato tardivamente, settimane dopo la chiusura dei comuni della bassa lodigiana, troppo vicini al capo- luogo di frontiera emiliano per poter essere considerati una realtà a parte. Eppure in tanti si sarebbero aspettati che una decina di giorni dopo il DPCM dell’8 marzo le cose sarebbero rapidamente migliorate, e invece così non è stato. Bastano i ritardi inziali, le fabbriche rimaste aperte in deroga ai decreti pur sempre più stringenti e l’incoscienza di qualche cittadino pronto a violare la quarantena forzata per futili motivi, a spiegare un numero così alto di contagi e il decesso di quasi un piacentino su mille? Oppure qualcosa è andato storto anche nel sistema sanitario nel suo complesso? Abbiamo parlato con un medico dell’ospedale piacentino all’interno del cui pronto soccorso dall’8 aprile è stata istituita un’area intermedia tra i pazienti ad altro rischio Covid e quelli a basso rischio. La tripartizione è stata poi estesa a tutti i reparti dell’ospedale un mese e mezzo dopo il primo caso di contagio, il 21 febbraio scorso, per porre rimedio all’annoso problema dei casi sospetti. Che dire della scelta? “Una risposta giusta – spiega il medico – non c’era, visto che nella realtà i casi sono molto più sfumati e il rischio per un paziente di trovarsi “pulito” in un’area sporca, o viceversa, c’era. Così come è verosimile che alcuni operatori sanitari positivi, ma non ancora accertati, possano aver diffuso il contagio in aree non Covid, dal momento che le mascherine in dotazione per il personale, le cosiddette Ffp2 o Ffp3 sono sì protettive in entrata, grazie al filtro, ma non in uscita”.

Per quanto siano state messe in pratica, nelle regioni italiane, misure preventive ferree, in assenza di controlli sistematici e puntuali, ci si è basati sul buon senso. Un esempio: a microfoni accesi, il direttore sanitario di una grande struttura per anziani – parliamo ancora una volta della sopraccitata Melania Cappuccio – ammette di aver avuto la febbre, ma di non aver voluto fare il tampone volutamente perché altrimenti avrebbe corso il rischio di rimanere a casa per 15 giorni. Insomma, tra scegliere se andare al lavoro pur avvertendo sintomi simil-in fluenzali e con il rischio di contagiare altri pazienti e colleghi, o rimanere a casa, c’è chi ha scelto la prima opzione per evitare il collasso del sistema e chi la seconda, appellandosi al senso civico.

Ma c’è anche chi ha denunciato, da dipendente, di essere stato sollecitato a continuare a lavorare almeno no a che l’esame del tampone non avesse dato esito positivo. Come un’infermiera dell’ospedale di Piacenza che, anonimamente, ha di- chiarato sempre a Report del 30 marzo scorso di aver dovuto chiedere con insistenza il tampone perché sapeva di aver avuto contatti a rischio senza protezioni adeguate. Senza conta- re il rischio oggettivo di aver, a sua volta di uso, il contagio tra altri pazienti prima dell’accertamento della positività.

Di certo è che al Nord, come sottolineato da Massimo Razzi su Repubblica il 13 aprile, il grande contagio è avvenuto negli ospedali e nelle residenze per anziani. […]. “E’ chiaro – prosegue l’articolo, citando il già di- rettore di Malattie infettive dell’Iss, Antonio Cassone – e i nostri esperti lo hanno confermato, che in Lombardia (ma l’argomentazione pro- posta sembrerebbe valida anche per la vicinissima Piacenza in Emilia, n.d.r.) è morta troppa gente perché il virus ha potuto infilarsi laddove le persone erano più fragili: negli ospedali e nelle case di riposo per anziani. Diverso il caso del Veneto dove una medicina più basata sul territoio, a differenza di quella lombarda decisamente “ospedalocentrica”, ha saputo gestire l’epidemia tenendo il più possibile i contagiati lontano da- gli ospedali, senza perderne il controllo”.

Con lo stesso obiettivo, a Piacenza, facendo ammenda dagli errori iniziali di valutazione, è nata la prima task force di medici di cure prima- rie a domicilio, il cui modello ha già fatto il giro del mondo. A fondarla, il primario di Oncologia-Ematologia dell’ospedale di Piacenza. Sul paziente, si cerca ora di intervenire prima, per prevenire il decorso grave del virus, battendolo sull’anticipo ed evitando, al contempo, il sovra affollamento degli ospedali. Un metodo che sta già dando frutti incoraggianti sui primi 1000 pazienti visitati, nonostante una cura per il Covid ancora non sia disponibile.

Una notizia positiva in un mare di dubbi. “Quando questo mostro è arrivato, non eravamo pronti – commenta laconico un operatore socio-sanitario della Casa di cura Piacenza. Che racconta di una faida interna tra il personale, scoppiata dopo la puntata di Report e le denunce di alcuni, restituendo una visione dicotomica: c’è chi si scaglia contro la malagestione e chi, invece, preferisce guardare alle difficoltà oggettive, senza per questo evitare di ammettere errori iniziali. “Di cosa ci si può accusare – ribatte? Nessuno nei primi giorni della diffusione del contagio aveva capito come muoversi. Eppure qui in clinica i tamponi sono stati fatti. Tutti. E senza distinzioni, dai medici agli addetti delle pulizie. E per chi non poteva fare il tampone, sono state fatte le Tac”. Vero è che, nonostante analisi e precauzioni, il contagio si è esteso a macchia d’olio. Con la stessa potenza diffusiva. “All’inizio a disposizione avevamo solo una mascherina chirurgica, poi abbiamo capito che non serviva a niente”. E le cose, da allora, sono cambiate. La casa di cura è stata destinata alla cura del Covid, grazie a una scelta operata con il Sistema Sanitario Nazionale. E anche i dispositivi di protezione individuale sono cambiati: mascherine del modello Ffp2, calzari, guanti spessi, camici, cuffie e occhiali anti-schizzo”. Arrivati troppo tardi? “Il possibile è stato fatto – spiega l’operatore socio sanitario. Ma per questa emergenza nessuno, a livello nazionale, si è rivelato pronto”. Un punto, su cui non possiamo che dargli ragione.

 

 

 

 

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