Il cibo italiano contraffatto fa guadagnare 120 miliardi di euro. Difendiamoci dalle brutte copie!

di Maria Moreni

Continua a salire il valore del falso Made in Italy agroalimentare nel mondo. Il giro d’affari del cosiddetto “fancy food”, il cibo contraffatto, è arrivato a 120 miliardi di euro.

In particolare, sul fronte delle produzioni enogastronomiche illecite, imitazioni di quelle tricolori, gli Stati Uniti fanno registrare i fatturati più elevati, con 40 miliardi di euro, un terzo di tutti i ricavi del comparto.

A lanciare l’allarme, di recente, sono state Coldiretti (Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti) e Filiera Italia (associazione che unisce il mondo dell’agricoltura e quello dell’industria alimentare in difesa delle eccellenze tricolori).

Le due realtà associative hanno delineato l’attuale scenario nell’ambito del Summer Fancy Food 2023, il più importante evento fieristico mondiale dedicato alle specialità alimentari, tenutosi presso il Javits Center di New York City.

Durante questa manifestazione è stata inaugurata la prima esposizione del falso Made in Italy a tavola. In quel contesto sono state mostrate anche le più grottesche “copie” delle specialità italiane scoperte negli Usa. Si tratta di prodotti “fake” che occupano spazio e tolgono valore ai cibi tipici e autentici del Bel Paese.

Solo uno su sette dei prodotti agroalimentari che richiamano la Penisola mediterranea, venduti in America, proviene realmente dallo Stivale, con esportazioni del valore di 6,6 miliardi di euro nel 2022.

Il 90% dei formaggi di tipo italiano (ma per nulla Made in Italy) commercializzati negli Usa sono in realtà prodotti nel Wisconsin, in California e a New York. La produzione di imitazioni dei formaggi tricolori negli Stati Uniti ha raggiunto un record di oltre 2,7 miliardi di chili nel 2022, con una crescita esponenziale negli ultimi 30 anni che ha superato persino la produzione di formaggi americani come Cheddar, Colby, Monterrey e Jack (2,5 milioni di chili registrati nello stesso anno).

Negli Stati a stelle e strisce sono venduti prodotti falsi di tutte le categorie agroalimentari, come, per esempio, l’olio Pompeian – che, malgrado il nome, non ha nulla a che fare con Pompei, l’antica città campana patrimonio Unesco – ma anche improbabili riproduzioni dei salumi più prestigiosi come il crudo Parma e San Daniele, la mortadella di Bologna, il salame Milano e imitazioni di conserve come il pomodoro San Marzano.

Tuttavia, l’industria del falso Made in Italy a tavola è diventata un problema planetario, tanto che, a causa del cosiddetto “italian sounding”, come viene stimato da Coldiretti e Filiera Italia, oltre due prodotti agroalimentari tricolori su tre nel mondo sono falsi e non hanno alcun legame produttivo e occupazionale con l’Italia.

In Sudamerica il fenomeno rischia di essere ulteriormente incentivato dall’accordo di libero scambio Mercosur, tramite cui i “veri” Parmigiano e Grana si trovano a convivere con le “brutte copie” nei mercati locali, dal Parmesan al Parmesano, dal Parmesao fino al Reggianito.

Non fanno eccezione i vini: il Prosecco, per esempio, è il primo prodotto Dop (denominazione di origine protetta) per quello che riguarda le imitazioni a livello globale. Basti pensare a Meer-secco, Kressecco, Semisecco, Consecco e Perisecco in Germania, Whitesecco in Austria, Crisecco in Moldova, solo per fare alcuni esempi).

Ha affermato Ettore Prandini, presidente di Coldiretti: “Il contributo della produzione agroalimentare Made in Italy a denominazione di origine alle esportazioni e alla crescita del Paese potrebbe essere nettamente superiore con un chiaro stop alla contraffazione alimentare internazionale”. E ha aggiunto: “Ponendo un freno al dilagare dell’agropirateria a tavola si potrebbero creare ben 300mila posti di lavoro in Italia”.

Ha commentato, inoltre, Luigi Scordamaglia, amministratore delegato di Filiera Italia: “In tutto il mondo cresciamo grazie alla distintività dei nostri prodotti che sono frutto di territori ma anche di una cultura antica inimitabile. Falsificarli, snaturarne le ricette, cambiarne gli ingredienti vuol dire distruggere ciò che rende unico al mondo il nostro stile di vita di cui la cultura alimentare è parte essenziale”.

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