Il “contagio” degli studi umanistici. Per una vera riapertura di biblioteche e archivi pubblici

Le misure elaborate per permettere all’Italia di entrare nella “Fase 2” prevedevano la riapertura di biblioteche e archivi pubblici a partire da lunedì 18 maggio, con le dovute raccomandazioni di rispettare le prescrizioni di sicurezza e di distanziamento sociale. Queste istituzioni – che non vanno viste come semplici spazi di svago per bibliofili e appassionati di storia locale – sono un luogo di lavoro per diverse categorie di persone – dottorandi, ricercatori, professori e professionisti della cultura – oltre che un punto di riferimento essenziale per permettere agli studenti di proseguire il proprio percorso di studi.

Ad oggi, trascorsi due mesi, lo scenario è però piuttosto preoccupante.

Grazie ai tanti sacrifici, alle misure di contenimento, alle diverse forme di attenzione messe in campo e tutt’ora mantenute – spesso faticosamente – in tutti gli ambiti della vita quotidiana, sembra che l’estate 2020 ci stia regalando un lento ritorno alla normalità, in forme quasi insperate durante i terribili mesi della scorsa primavera. A verificarsi, però, è una sorta di schizofrenia, che da un lato incentiva il rilancio delle attività commerciali, come palestre, stabilimenti balneari, locali per la “movida”, e dall’altro mantiene strette le cinghie di controllo su biblioteche e archivi. Se è più che legittimo il tentativo di ridare respiro all’economia, basilare e comprensibile preoccupazione di tutti, politici e amministratori non sembrano essere toccati dalla necessità di restituire ai luoghi deputati alla cultura la loro dignità di funzionamento.

Mentre alle librerie è stato concesso di riaprire già a partire dal 14 aprile, adducendo come giustificazione il fatto di poter offrire un conforto ai disagi della quarantena grazie al virtuoso sostegno dei libri, gli istituti pubblici che custodiscono e offrono i medesimi servizi – e che lo fanno gratuitamente – non hanno ricevuto la dovuta attenzione, e, in assenza di una politica di gestione uniforme, sono ostaggio di difficoltà e impedimenti. Gli ostacoli alla concreta ripartenza di questi luoghi sono principalmente di natura economica – le spese per la sanificazione, la fornitura di dispositivi di protezione individuale – ma non poche limitazioni si annidano nelle perniciose forme di organizzazione e funzionamento che li caratterizzano ormai da diversi decenni: personale dipendente sotto organico, talvolta affiancato da volontari – la cui età avanzata li pone in condizione di maggior rischio –, l’esternalizzazione di parte o della totalità dei servizi, il dilagante precariato di borse e contratti a termine per giovani e non-più-tanto giovani bibliotecari e archivisti…

Se bar e locali sono tornati a offrire quotidiani e giornali ai propri clienti, il timore del contagio e delle responsabilità che ne conseguono immobilizza direttori e amministratori di centri di ricerca, biblioteche universitarie e pubbliche, di archivi statali e locali. La paura maggiore è che la carta diventi un veicolo di trasmissione del virus. Sacrosanta preoccupazione, ma è davvero possibile che si applichi solo agli oggetti cartacei conservati negli istituti della cultura?

Con una lettera indirizzata al Ministro per l’Università e la Ricerca, Gaetano Manfredi, al Ministro per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo, Dario Franceschini, al Direttore Generale Archivi Mibact, Anna Maria Buzzi, al Direttore Generale Biblioteche e diritto d’autore Mibact, Paola Passarelli, al Direttore Generale Educazione, ricerca e istituti culturali Mibact, Mario Turetta, la CUNSTA – Consulta Universitaria per la Storia dell’Arte – richiede il ritorno alla piena operatività. Nel documento si sottolinea come, nei rari casi in cui si sia sperimentata qualche forma di riapertura – a orari fortemente limitati e con vari servizi non effettivi – una speciale normativa è intervenuta a bloccare l’attività: si tratta della disposizione “non prescrittiva” che consiglia una quarantena di dieci giorni per ogni libro consultato. Siamo di fronte – evidenziano i firmatari – a un’indicazione proveniente dall’Istituto della Patologia del Libro, che non è un ente medico ma un istituto per la conservazione libraria. L’Associazione Italiana Biblioteche ha espresso forti perplessità circa questa misura, facendo presente che l’Istituto Superiore di Sanità, il massimo organismo in campo sanitario nazionale – rimarcano –, ha espressamente definito il periodo di sopravvivenza del virus sulla carta fino a un massimo di tre giorni. «Non comprendiamo come mai soltanto le biblioteche (e archivi) vengano sottoposte a queste norme draconiane».

A fronte di simili sollevazioni di scudi provenienti solo da diverse branche delle discipline umanistiche, si deve ammettere anche un margine di responsabilità specifica di chi è troppo spesso incapace di comunicare agli altri “cosa fa di lavoro”. Ecco allora che, per fare un esempio, si propone il caso dei dottorandi e dei ricercatori che devono onorare contratti di prestazione occasionale, borse di studio oppure assegni di ricerca, consegnando entro scadenze specifiche i prodotti di una ricerca che è intralciata, frustrata o persino impedita da orari limitati, da prenotazioni che obbligano ad attese di settimane perché le postazioni a disposizione dell’utenza sono drasticamente ridotte (con casi di archivi in cui, a fronte di 40 posti, si permette l’accesso a 9 studiosi), precludendo il libero accesso ai libri sugli scaffali e costringendo a richiedere i volumi e le buste di documenti in numero sempre limitato (persino uno o due al giorno), attraverso sistemi di scarsa efficienza che costringono ad aspettare ore, dilapidando il tempo e le forze per il lavoro.

La richiesta che si avanza è che anche questo settore venga tenuto in considerazione, benché «non direttamente connesso alle strutture del commercio e della produzione industriale» (come da lettera della CUNSTA). Se è vero che per la cultura si sono stanziati e si intendono stanziare milioni di euro, non si dimentichi che prima di arrivare alla divulgazione e alla fruizione – attività che generano introiti e posti di lavoro – è necessario fare ricerca, perché essa è il nutrimento, la linfa nuova, e l’unica possibilità di progresso nella conoscenza del nostro patrimonio storico-artistico e culturale.

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