Il futuro dell’UE stremata dal virus e i limiti dell’integrazione economica

Nelle stesse settimane in cui la neopresidente della BCE, Christine Lagarde, annuncia “Non faremo sconti sugli spread”, Olanda, Germania e altri Paesi del Nord reagiscono stizziti all’ipotesi di mettere in comune almeno una parte del debito pubblico dei Paesi dell’eurozona, il Coronavirus si propaga molto rapidamente in tutta Europa. Ignorando la distanza siderale tra nord e sud e approfittando dei limiti di una politica economica comune ancora inconsistente, osteggiata da interessi statali tra loro incommensurabili, misure di solidarietà sociale insufficienti e vincoli di bilancio apparsi, mai più di ora, orpelli superflui di fronte all’emergenza sanitaria: basteranno il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) e una temporanea sospensione degli obblighi di bilancio a tenere unito il puzzle, oppure l’Unione Europea – parafrasando Marx – sta già covando in sé i germi della propria distruzione?

Ne parliamo con Marco Baldassarri, docente a contratto di World Politics and International Relations all’Università di Pavia, un’analisi sul presente e futuro dell’UE e della situazione italiana.

Marco Baldassarri

Professor Baldassarri, si aspettava che i Paesi dell’Unione avrebbero reagito all’emergenza pandemia senza una strategia condivisa?

Era prevedibile. L’ambito sanitario rientra nelle competenze dell’Unione per ciò che attiene al mercato interno, non è una competenza esclusiva. Sono gli Stati che decidono come organizzare i propri sistemi ospedalieri che, come sappiamo, sono profondamente diversi da Paese a Paese. Il tema semmai è come mettere i Paesi in condizione di parità economica per poter finanziare la spesa per investimento in settori come sanità ed istruzione, dal momento che non esiste un sistema sanitario unico europeo. In questo l’approccio neoliberista all’integrazione europea ha insistito su una strategia politica di contenimento della spesa. Metto in evidenza il dato che nel 1980 in Italia avevamo 9 posti letti per 1000 abitanti e oggi sono ridotti a 2,5. Questa “macelleria sociale” non si può spiegare solo con “gli sprechi”. Ci sono state scelte politiche nazionali ed europee, che sono andate nella direzione di un progressivo smantellamento dei nostri sistemi di welfare per come li abbiamo conosciuti nei cosiddetti anni gloriosi del capitalismo maturo. Ciò detto, le diversità dei sistemi nazionali dipendono anche da fattori culturali, religiosi e tradizioni che sono diversi tra gli Stati del Nord Europa e quelli Mediterranei. Roberto Buffagni, uomo di teatro e acuto osservatore della contemporaneità, per esempio, descrive bene le diverse strategie che ciascun Paese mette in campo per affrontare le emergenze epidemiche: ci sono Paesi più orientati al “darwinismo sociale” per raggiungere la cosiddetta “immunità di gregge” e Paesi per cui le logiche di contenimento del virus prevalgono per proteggere tutta la comunità, anche i più deboli. Il premier inglese Boris Johnson è stato duramente criticato quando fece la dichiarazione allarmistica: “Perderete i vostri cari”; ora ha cambiato idea perché si è accorto della gravità del fenomeno, ma l’approccio inizialmente adottato riguardava una precisa “filosofia dell’emergenza”, non è stata una voce fuor dal senno fuggita.

Come valuta il continuo ricorso del Governo Conte alla decretazione d’urgenza in questo periodo? C’è chi invoca – come la Meloni – la riconvocazione del Parlamento per non sospendere la democrazia. Si può parlare di stato di eccezione? 

Certamente l’eccezionalità di questa situazione, di cui non si ha memoria dal dopoguerra ad oggi, è innegabile. Letture catastrofistiche, quasi apocalittiche di cambiamento radicale, a mio avviso, sono però eccessive. Non ci sarà nessuna palingenesi o fine del mondo. Lo stato d’eccezione, in senso stretto, prevede la sospensione di un ordinamento giuridico e la sostituzione temporanea della legge, per ragioni di sicurezza e protezione con un “dictator”. Credo che, nonostante le limitazioni evidenti del nostro stile di vita e delle nostre libertà, ciò non rappresenti un vero e proprio “stato d’eccezione”, ma piuttosto occorrerebbe parlare di uno “stato d’emergenza”, per altro invocato dal basso (dalla società) e dalla nazione, non da un élite, o imposta dai “poteri forti”. Qui sta la differenza fondamentale. Per una volta la salute ha il primato sull’economia. La partecipazione e la solidarietà e persino la compostezza degli italiani, nonostante le polemiche e il gossip di questi giorni, sono stati encomiabili. Così come gli sforzi del personale medico. Credo quindi che letture che enfatizzano il controllo bio-politico e poliziesco sulle vite, quasi a vederne l’esperimento di nuova forma di governo, non colgano nel segno e che la decretazione d’urgenza in questo caso corrisponda piuttosto a un’occasione per un risveglio dello Stato, come ha affermato anche Nello Preterossi. Conte ha cercato di gestire l’emergenza da Capo del Governo, fa ciò che ci si aspetta che un governo debba fare. Per cui in questa fase l’unità politica non deve essere messa in discussione. Non critico l’uso della decretazione d’urgenza in questa fase, che ci vuole. Il problema semmai è quando questa modalità di governo viene usata in periodi di normalità in cui lo svuotamento del Parlamento e del potere legislativo è costantemente all’opera, così come i processi di de-democratizzazione. Non è escluso, se la situazione economica dell’Italia dovesse peggiorare, che si ricorra a un governo di unità nazionale per traghettare il Paese verso una gestione nemmeno troppo velata di commissariamento.

Passiamo al fronte economico. È sufficiente allentare i vincoli di bilancio per far fronte al rischio di recessione connesso alla pandemia? L’Unione Europea sta fornendo all’Italia adeguate misure per evitare la crisi?

Chiaramente il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) non poteva che essere “sospeso”, attivando la clausola di salvaguardia. Ma l’impianto rimane confermato e verrà ripristinato a crisi finita. In altre parole, non si tratta di una riforma del PSC, anche se il coronavirus avrebbe potuto fornirne l’occasione. Il pacchetto di emergenza della BCE di 750 miliardi, più altre briciole per il Fondo di Coesione e Fondo per la Ricerca, non saranno sufficienti anche se si sente sempre parlare “di ultima occasione” per l’Europa: occorrerà fare molto di più, fino a decidere finalmente per l’acquisto di titolo di Stato sui mercati primari, emettendo denaro per finanziare deficit e debito, come vorrebbe l’economista Paul De Grauwe. Del resto è ampiamente dimostrato che l’altalena dello spread non dipende dall’affidabilità dei “lassisti” Paesi mediterranei, ma dall’avere una vera banca centrale in grado di garantire per tutta la zona euro. Credo che rimandare questa scelta cercando misure palliative non porti da nessuna parte. Attualmente il dibattito è incentrato sulla possibilità di finanziamento da parte del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) il cosiddetto Fondo salva-Stati, con o senza condizionalità. Olanda, Austria e Finlandia si sono schierati nettamente per la prima ipotesi, non comprendendo che così stanno segando il ramo dell’albero su cui siamo tutti seduti. Piuttosto che ai Coronabond si dovrebbe pensare agli Eurobond (tema non nuovo per altro), ma dubito che in questa situazione di grande frammentazione e incertezza i Paesi riescano a raggiungere un accordo. La Germania, tutto sommato, non vuole rinunciare a giocare il ruolo dell’egemone riluttante, per lei ancora conveniente. La domanda è sino a quando sarà così.

Facciamo chiarezza anche sul MES, il cosiddetto Fondo salva-Stati. In che modo può essere utile in questa fase? Che portata dovrebbe avere il paracadute in termini quantitativi per essere adeguato alla situazione italiana?

Chiariamo subito che l’acronimo sta proprio a significare che si tratta di un “Meccanismo” per la “stabilità”, quindi solo impropriamente si parla di Fondo. È un organismo di carattere intergovernativo creato nel 2012, in grado di operare in situazioni di conclamata emergenza a sostegno di un Paese in difficoltà. Ma si tratta di un sistema non progettato per il sostegno della crescita e per il finanziamento. Il MES è un vero e proprio dispositivo di controllo sul finanziamento condizionale che concede. Cioè denaro in cambio di “rigide condizioni” che significano “riforme strutturali”, tagli alla spesa pubblica, riduzione dell’età, privatizzazione dei servizi, una maggiore flessibilizzazione del mercato del lavoro (che si traduce nell’abbassamento dei salari). Insomma, una ricetta che abbiamo già visto sciaguratamente applicata alla Grecia). Il MES ha una potenza di fuoco pari a 700 miliardi, che non corrisponde alla dotazione degli Stati Membri (che contribuiscono proporzionalmente per 80 miliardi, quindi una cifra ridicola). Si conta quindi, come sempre, su un effetto leva dei mercati. Ma la cosa più grave è che il MES rappresenta un paradosso: da un lato sembrerebbe fornire aiuto ma nella pratica, ricapitalizzando le banche in difficoltà, alimenta un circolo vizioso in cui di fatto la spesa per investimento non viene incentivata, ma anzi è negata per principio. Per cui pare assurdo rivolgersi a questo organismo. Tanto più che ci sono posizioni molto diverse sul tema della condizionalità, a cui alcuni Paesi, più liberisti, non vogliono rinunciare.

Intanto gli aiuti all’Italia concreti sono arrivati dalla Cina (macchine per la ventilazione polmonare) e da Cuba (medici volontari). La Germania sta ospitando i primi pazienti dalla Lombardia. O è solo uno specchietto per allodole? 

Occorrerebbe vedere bene, dati alla mano, di cosa realmente si tratta. In queste situazioni l’emotività, soprattutto alimentata dal chiacchiericcio dei social media non aiuta. Sinceramente credo che siano aspetti secondari e non credo che serva qualcosa dividere tra i Paesi “buoni” che aiutano e la cattiva Germania. Bisogna guardare concretamente ai rapporti di forza e agli scenari geopolitici. Questo vale per tutti chiaramente. Quindi anche stigmatizzare tutto ciò che viene dalla Russia come fake news, così come affermare ad ogni piè sospinto che la Cina non rispetta i diritti umani, o che sarebbe una spietata dittatura, è sbagliato ed è un modo in cui si esprime il pensiero del “politicamente corretto” di stampo neoliberale. Detto questo anche gli aiuti cinesi non sono disinteressati, ma volti appunto a riqualificare l’immagine del Paese nel mondo. Credo tuttavia che la Cina uscirà presto dalla crisi (la curva del contagio è in discesa) e che questo trauma la porterà probabilmente ad un rilancio in grande stile, pronta probabilmente ridefinire gli assetti egemonici sul nostro pianeta.

Cosa resterà dell’Unione europea alla fine di questa pandemia? È doveroso ripensarne i pilastri?

L’Europa anziché lamentarsi e condannare sé stessa a rimanere un vaso di coccio fra quelli di ferro del mondo multipolare dovrebbe abbandonare la sua retorica post-sovrana e iniziare a instaurare un dialogo politico più proficuo con la Cina. Cacciari ha affermato che la risposta dell’Europa all’emergenza del Coronavirus è stata tragicomica e che questo ne determinerà la fine; il Coronavirus è la pietra tombale dell’integrazione. In realtà l’UE è già da tempo avviata verso una disintegrazione. Molti studiosi ne parlano. La frammentazione, o differenziazione (si usa dire per ammorbidire il concetto) mettono in evidenza che la dimensione sovranazionale conti sempre meno e a decidere sia invece quella intergovernativa. La Germania sta ancora usando la governance europea per imporre di fatto la sua linea governativa. Alla fine anche la storia ci insegna che è a partire dalla questione tedesca che si deve iniziare.  È il nodo gordiano che bisogna affrontare. E lo si può affrontare attraverso una decisione, ma vera, non con la governance e il chiacchiericcio tecnocratico.

 

 

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