Il Governo del cambiamento e il ritorno ai rituali democratici

Il Governo che si è insediato lo scorso anno in Italia si è caratterizzato per molti aspetti, spesso in contraddizione tra di loro, come le forze che lo hanno composto. Ma quella che più colpisce è l’irritualità che se in campo artistico è una dote, dal punto di vista politico è un azzardo costituzionale. Eppure, il governo del cambiamento forse ci darà la prima vera prova di rispetto dei valori costituzionali proprio in prossimità della fine. Ci si riferisce alla possibilità che la crisi di Governo sia portata in Parlamento e lì pubblicamente discussa e formalizzata con un voto di fiducia così come prevedono l’art. 94 della Costituzione e i Regolamenti Parlamentari.

In particolare, secondo l’articolo 94 della Costituzione, il presidente del Consiglio può perdere la sua poltrona solo con un “voto di sfiducia”: «Il governo deve avere la fiducia delle due Camere», che può essere accordata o revocata «mediante mozione motivata e votata per appello nominale», prescrive la Carta. Stando ai regolamenti parlamentari (articolo 116 per la Camera e articolo 161 del Senato) il voto di fiducia si può porre anche su provvedimenti vitali per la tenuta del governo come “decreto sicurezza bis” oppure per “verificare” se il governo ha i numeri necessari per rimanere in piedi. Se la fiducia viene meno, il premier sale al Colle per rimettere il mandato nelle mani del Capo dello Stato e, a quel punto, hanno inizio le consultazioni.

Senza maggioranze alternative, si torna inevitabilmente alle urne.

Al momento tuttavia gli scenari possibili sono quattro: il primo è quello auspicato dal Leader della Lega, cioè sfiduciare il premier Giuseppe Conte e andare al voto nella seconda metà di ottobre così da affrontare la corsa alla legge di bilancio. È evidente che in questo scenario non troverebbe spazio nè una nuova maggioranza, né un governo di scopo a tempo, né tanto meno un esecutivo politico. Il secondo vede l’accordo tra Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle. Anche in questo caso occorre prima sfiduciare il premier per poi passare al patto di legislatura tra grillini e dem che già il 13 agosto hanno votato insieme al Senato sull’agenda dei lavori del Parlamento. La terza opzione è quella del Governo Tecnico. Tradotto in concreto, significa sfiduciare Conte e nominare un esecutivo tecnico-istituzionale che si occupi del taglio dei parlamentari, della legge di bilancio e di una nuova legge elettorale prima di andare al voto. Qui lo scoglio è rappresentato dalla necessità di trovare la maggioranza che sostenga l’esecutivo tecnico. Infine, quarta chance ma molto improbabile, è che la Lega ritiri la sfiducia a Conte facendo rientrare la crisi di Governo così da approvare il taglio dei parlamentari e infine andare al voto nella primavera 2020.

Per inciso, il taglio dei parlamentari è, dopo la sfiducia a Conte, l’altro vero nodo che il Parlamento sta affrontando. Il progetto prevede la riduzione del numero dei parlamentari di 345 unità. I senatori diventerebbero 200 (prima 315), i deputati 400 (prima 630) con un risparmio stimato di 50 milioni di euro l’anno.

Una riforma importante, che modifica la Costituzione e che all’articolo 4 stabilisce che le nuove regole si applicano «a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore della legge» e comunque «non prima che siano decorsi 60 giorni dalla predetta data di entrata in vigore».

La Costituzione, inoltre, prevede che, una volta pubblicata la legge sulla Gazzetta Ufficiale, 500mila cittadini, cinque consigli regionali o un quinto di deputati o senatori abbiano la facoltà di chiedere, entro tre mesi, un referendum per confermare o meno la riforma. Questo significa che se venisse approvato il taglio dei parlamentari e si andasse subito al voto, senza aspettare i tre mesi previsti dalla Costituzione per un possibile referendum, la sforbiciata non verrebbe applicata al nuovo Parlamento.

Ora e aldilà dei contenuti dei singoli contesti prospettati, per certi versi agli antipodi l’uno dall’altro per condizioni iniziali o prospettive future, quello che appare interessante in questo caos istituzionale è la gestione della crisi di governo. Solo Romano Prodi, nel ‘98 e nel 2008, ha lasciato Palazzo Chigi dopo aver perso la fiducia della maggioranza che lo sosteneva. Questo unico precedente è dovuto al fatto che in Italia le crisi di Governo vengono gestite in sordina, nelle stanze dei palazzi e il finale è dato delle dimissioni da parte del Premier uscente. Ma formalizzare la crisi contiene un forte messaggio istituzionale; significa in ultima istanza che ogni parlamentare dovrà pubblicamente assumersi la responsabilità di decidere se far cadere o meno il governo, consentendo poi agli elettori di comprendere, valutare e infine giudicare.

Il senso della democrazia, salvaguardato dalle regole della rappresentanza, confluito nei rituali insensatamente definiti obsoleti, è tutto qui.

E fa riflettere che il primo governo dichiaratamente populista del Nostro Paese, indifferente alle regole in nome dell’interesse del popolo italiano, rispetti proprio ora la procedura. In ultima analisi, ci si chiede se adottando sin da subito il necessario rigore, la storia sarebbe stata diversa quella che stiamo raccontando.

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