Il grido dell’aquila – Il primo film sulla Marcia del 1922

di Paolo Speranza

È targato Napoli il primo film sulla Marcia su Roma: Il grido dell’aquila, presentato nelle sale di tutt’Italia il 29 ottobre 1923, nel primo anniversario dell’evento.

Di Napoli è il regista, Mario Volpe, figlio del più noto Vincenzo, pittore nativo di Grottaminarda, in Irpinia, e affermatosi a Napoli, dove in quegli anni era presidente dell’Istituto di Belle Arti. E napoletano era il protagonista, Gustavo Serena, attore e regista molto popolare all’epoca del cinema muto, entrato nella storia del cinema per aver diretto la prima Assunta Spina (1915), dal dramma di Salvatore Di Giacomo.

Nel film Serena interpreta la parte di un giovane tenente, Aldo Giuliani, intriso di patriottismo con venature romantiche alla maniera degli eroi del Risorgimento, innamorato della cugina Stella (l’attrice Bianca Renieri), tra le cui braccia infine morirà, nel tentativo di difendere un povero cieco, Sandro, durante un assalto ad opera di facinorosi agitatori filosovietici.

È sufficiente questa scena clou per comprendere il sostanziale insuccesso di Il grido dell’aquila, tanto ambizioso quanto velleitario e confuso. Prodotto dall’Istituto Fascista di Propaganda Nazionale con la Montalbano Film di Firenze, il film di Volpe fu accolto freddamente dalla stampa e snobbato dal pubblico, anche per l’allestimento piuttosto spartano (il cinema italiano dell’epoca si caratterizzava per le sontuose scenografie) e la sceneggiatura ridondante di Valentino Soldani, scrittore quotato e fascista della prima ora, che due anni prima era stato coinvolto nel flop del kolossal Dante nella vita e nei tempi suoi, di Domenico Gaido.

Prodotto di scarso valore artistico, quasi ignoto anche alla storiografia del cinema (ad eccezione dei saggi di Battista Copello su “Cinema e Cinema” nel 1980 e di Vittorio Martinelli nel 1985 su “Immagine”), il film di Volpe si rivela “di ispirazione schiettamente fascista (un fascismo di stampo nazionalistico, che pretende di derivare dritto dritto da Garibaldi e di risolvere in fretta e furia il disagio sociale delle masse, “avvelenate” dalla propaganda bolscevica), fino ad ora trascurato nella filmografia del cinema di regime”, come osserva uno dei maggiori storici del cinema in Europa, Orio Caldiron, in un saggio del 1979 su “La Rivista del Cinematografo”.

Le due sorelle

A distanza di un secolo, tuttavia, pur nella versione incompleta oggi disponibile presso la Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia, Il grido dell’aquila assume un indubbio interesse di carattere storico, forse persino superiore ai documentari che nel 1922 registrarono in presa diretta la Marcia su Roma: A noi!, di Umberto Paradisi, appena presentato in edizione restaurata alla Festa del Cinema di Roma, e Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza, firmato da un pioniere del cinema italiano, Luca Comerio, e subito apprezzato dal regime fascista e dallo stesso Mussolini, che restò invece piuttosto freddo rispetto al film di Volpe.

Il grido dell’aquila resta in ogni caso il primo lungometraggio di fiction sulla Marcia del 1922 e sull’avvento del Fascismo, e più degli altri ne restituisce il colore dell’epoca, sia pure in maniera farraginosa e con esiti a tratti ridicoli: proprio la scena della marcia, ha scritto Martinelli, sembra “una corsa campestre disordinata e, se possibile, anche più zotica e sciatta della marcia originale”.

I calunniatori

Il tentativo di creare un filo rosso con il Risorgimento, stabilendo in particolare un nesso ideale tra l’epopea garibaldina e lo squadrismo mussoliniano (dalle camicie rosse alla camicie nere), tuttavia, nonostante il carattere palesemente forzato e strumentale, costituirà un punto nodale della propaganda fascista, come l’incubo del bolscevismo (definito nel film “l’orso straniero”), mentre il linguaggio delle immagini e delle didascalie è impregnato di quel decadentismo retorico e provinciale che connotò in Italia la cultura mainstream prima e durante il Ventennio.

Il grido dell’aquila, attesta infatti Martinelli, “aprì la strada ad una serie piuttosto cospicua di film nazionalistici, risorgimentali, sulla grande guerra”.

Per Volpe, regista di indubbie capacità creative ma dalla biografia tormentata, le deludenti esperienze a Roma e a Firenze (dove nel 1926 subì anche un arresto, per la truffa ai danni di alcuni studenti della sua Università Italiana del Cinematografo, una scuola privata di cui era direttore artistico), furono in parte compensate dai successi conseguiti a Napoli, dove fondò una casa di produzione, l’Astra Film, e diresse film apprezzati come una Francesca da Rimini nel 1919 e sei anni dopo una versione cinematografica di Fenesta che lucive.

In questo percorso artistico controverso e accidentato, a Volpe non mancarono estimatori convinti. Ecco, ad esempio, alcuni passi significativi che al regista campano dedica un critico dell’epoca, Giulio Busoni, in un articolo su “La Vita Cinematografica”, edita a Torino, del 28 agosto 1926: “Mario Volpe iniziò la sua carriera di metteur-en-scéne e di direttore artistico, quando il cinematografo cominciava appena a liberarsi della volgarità e dell’incertezza dei primi tentativi, per balbettare timidamente parole nuove di bellezza e d’arte; ha assistito e partecipato al suo rapido sviluppo, accompagnandolo nell’ascesa portentosa e godendo di ogni suo progresso come di una propria vittoria, ed ha infine salutato la sua affermazione, come il trionfo ed il compimento felice di un ideale accarezzato. Sorta appena la Napoli Films, egli entrò a farvi parte quale aiuto direttore e metteur-en-scéne; ed invero, napoletano e innamorato della sua Patria, nessuno avrebbe saputo meglio di lui cogliere ogni più suggestiva e caratteristica bellezza. Dalla Napoli Films, dove negli ultimi tempi gli era stata affidata la direzione artistica delle commedie — ufficio che egli disimpegnava a meraviglia, soccorso da quel fine senso d’umorismo che gli è naturale — passò all’Augusta Film di Roma, dove allestì L’eroina servaI Martiri di Belfiore; e di qui, scritturato alla Bermudez, per la direzione di Romanzo d’una stiratrice e L’uomo scomparso, passò in seguito all’Apollo, che preparava allora, per l’interpretazione della Terribili-Gonzales, un soggetto di ambiente russo: Petrusca. Ma il Volpe non si fermava all’Apollo, ed eccolo alla Cinedrama di Milano, ad allestire Consul buona lana, il soggetto scimmiesco che ha divertito milioni di spettatori di tutto il mondo; ed in seguito lo vediamo alla Lombarda Film a Roma, per mettere in scena, a fianco del compianto Mario Caserini, L’ombra, di Dario Niccodemi, con Vittoria Lepanto”.

Un profilo lusinghiero, generalmente non condiviso dalla critica di oggi. Resta fuor di dubbio che Mario Volpe fu regista prolifico, dirigendo alcuni dei più famosi attori dell’epoca, e soprattutto un instancabile sperimentatore: a lui si deve, ad esempio, non solo una riduzione cinematografica dal romanzo Il Piacere di D’Annunzio, ma probabilmente (la cautela è necessaria perché molti suoi film sono andati perduti) anche il primo tentativo di film futurista: Il mistero del castello, che fu anche record di incassi.

Meno brillante fu il ritorno del regista a Napoli dopo la seconda guerra mondiale, con film strappalacrime come Le due sorelle, Papà ti ricordo, I calunniatori, inseriti in quel filone di melodrammi in salsa canora che attiravano il pubblico più popolare ma non uscivano dai confini regionali.

Erano ormai lontani i fasti del periodo egiziano, quando Volpe, per una casa di produzione francese, aveva diretto alcuni titoli di successo e soprattutto La canzone del cuore, interpretato dalla popolare cantante Nadra, che si rivelò un flop sul piano commerciale (soprattutto in relazione alle aspettative e ai cospicui investimenti della produzione), ma resta nella storia del cinema come il primo film sonoro in Egitto.

Papà ti ricordo
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