Il latino e il greco: l’attualità delle lingue morte

A cosa serve oggi tradurre e volgere in italiano il pensiero degli antichi latini e greci? Ne abbiamo parlato con Alessandro De Poli, docente presso il liceo classico di Piacenza: studiamo la civiltà latina e greca per apprendere fatti, istituzioni e il pensiero politico-filosofico che sono alla base della nostra cultura contemporanea europea. 

A tanti di noi – forse quasi a tutti noi – nel corso della nostra vita, sarà capitato si imbattersi nel latino e nei Romani, così come nei greci e nella Grecia antica: al museo dinanzi a statue di corpi perfetti, in gita al Colosseo o all’Arena di Verona, magari leggendo le avventure di Asterix e Obelix con Giulio Cesare! E poi, nei libri di Storia, quella che si racconta al passato remoto, ma anche quella più vicina a noi, che quasi potremmo narrare al presente.

Il latino è Italia ma è anche Europa.

Dal latino sono derivate varie lingue ufficiali europee (l’italiano, il francese, il portoghese e il romeno) e alcune non ufficiali (come il catalano). E anche l’inglese, lingua germanica, ha assorbito circa il 60% del suo lessico dal latino. “Elevator”, ascensore in inglese, contiene ad esempio la radice “levis”, leggero in latino.

Il latino poi è costitutivo della storia europea: tutti conosciamo il detto cartesiano “cogito ergo sum” e quando Newton pubblico la teoria della gravitazione universale, lo fece in latino (“Philosophiae Naturalis Principia Mathematica”). E forse non tutti sanno che anche “Petrarca mentre sta componendo in volgare il Canzoniere, che rivoluzionerà il corso della lingua letteraria europea (e che per altro ha un titolo latino: Rerum vulgarium fragmenta), annota a margine di un codice oggi conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano la notizia devastante della morte dell’amata Laura e lo fa in latino, non in volgare”, ricorda Alessandro De Poli, docente di latino e greco al Liceo Gioia a Piacenza. E, continua il professore, la lingua di Cicerone e Seneca è stata anche usata, nei secoli bui europei: “Pensiamo al latino ecclesiastico di Don Abbondio (e parallelamente quello giuridico dell’Azzeccagarbugli): esso serviva per celare, nascondere, ingannare e asservire il più debole, l’ignorante, confondere Renzo. Nella storia recente, invece, del latino è stato fatto un uso anche propagandistico da parte dei regimi che si richiamavano all’immaginario del ‘romano, latino’ (il fascio littorio, l’Impero…)”.

Oggi il latino continua a “vivere” nello spirito di accoglienza e inclusione costitutivo del – pur da molti contestato e avverso – progetto europeo legato al concetto di cittadinanza aperta. Questa apertura verso l’Altro, precisa De Poli, la troviamo tra i Romani, che includevano i popoli conquistati nel sistema di diritti fondanti e identitari, come l’esercizio stesso della cittadinanza romana (‘Civis Romanus sum!’) e l’uso della lingua latina, che essi fecero talmente propria da diventarne maestri. “Seneca, per esempio, nacque nella penisola iberica.” In questo senso, il latino si pone in aperto contrasto con il greco antico, lingua (e popolo) ben più intransigente, in origine, nei confronti dell’accoglienza dello straniero, il quale – come ricorda De Poli – era “identificato nel lessico con il suono, al greco incomprensibile e indistinto, della sua lingua (βα’ρβαρος, bar-bar-os, quasi un balbettio senza senso)”.

Tuttavia, anche la civiltà ellenica continua a risuonare nel nostro continente, e non solo per il fatto che esso (il nostro continente) porta un nome (Europa) che è un tributo alla figlia di Agenore, re di Tiro della quale Zeus – re degli dei dell’Olimpo – si innamorò perdutamente! La grecità ci ha lasciato il concetto di democrazia, il pensiero logico e la capacità di astrazione, la filosofia, la bellezza e il suo legame con la virtù.

Noi e le lingue “morte”: un legame che continua?

Il latino e il greco, dunque, queste “lingue morte”, ci circondano e ci parlano. Continuamente. Sono, come scrive Nicola Gardini in Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile (2016) parte del sistema immunitario dell’Occidente. “Non posso che essere d’accordo con questa immagine e – aggiunge De Poli – rimanendo nell’ambito della metafora, dire anche che il latino ha fornito all’Occidente una serie di enzimi, capaci di legare e fissare quanto di utile e di bello è servito al suo (dell’Occidente) sviluppo armonico, nonostante gli scossoni della storia.”

Eppure, latino e greco dipingono anche un mondo che non è propriamente il nostro. Non può esserlo, per ragioni temporali e perché la società e i valori mutano, ma anche in quanto sono la lingua stessa e il suo utilizzo a cambiare. Il modo in cui parliamo oggi è fatto di brevità, velocità, anglicismi e emoji, mentre gli autori antichi scrivevano (in genere) per subordinate e con propensione all’ipotassi. La questione è ben nota a quanti si sono confrontati, negli anni, con l’apprendimento del latino e del greco tra i banchi di scuola senza, per di più, la possibilità di interrogare il proprio interlocutore sulla propria comprensione linguistica.

A che cosa serve studiare le lingue morte, là dove, appunto, non è data la possibilità di usarle, testarle, praticarle al di fuori dei contesti scolastici e accademici? Si dice che queste lingue ‘aprano la mente’, ma che cosa significa questo? Non basta studiare la storia dei romani che costruivano strade e acquedotti nei territori conquistati; non basta conoscere l’etimologia della parola democrazia e saper che demos era il popolo, senza essere in grado di “leggere” δῆμος?

“Imparare il latino e il greco – afferma Alessandro De Poli – permette di affinare la propria capacità di capire e di farsi capire, di appropriarsi della complessità (linguistica ma anche di pensiero) con la quale si è confrontati e, poi, di esprimere cose complesse anche nelle frasi semplici utilizzate oggi. Viviamo bombardati dalla semplificazione, discorsi e slogan che rifuggono complicate argomentazioni al limite della banalizzazione. Leggere le Storie Vere di Luciano – tra i miei autori preferiti – così come i testi di Lucrezio, Seneca o Cicerone, tanto per citare alcuni nomi ‘noti’, porta a confrontarsi con modi del tutto originali e diversi per dire il mondo, per esprimere un’idea, un’emozione o uno stato d’animo”.

Per far ciò, è necessario tradurre, portare il significato al di là della barriera linguistica significante, comprendendo la complessità della lingua percorrendo un cammino che va verso l’originale, ma non è l’originale. Piuttosto, un incontro con l’originale. E questo incontro potrà non essere mai esattamente uguale. “Premesso che per tradurre è necessaria un’ottima conoscenza della lingua in questione, nell’atto stesso di volgere il latino o il greco in italiano, le parole di queste lingue morte diventano nostre, le contestualizziamo e cerchiamo di renderle al meglio per sentire in italiano quello che il testo di fronte a noi ci sta dicendo”, spiega De Poli, che ha avviato, come diffusa consuetudine del suo dipartimento: un laboratorio di traduzione. “Con i ragazzi prendiamo, ad esempio, un testo in latino che non si trova nei classici manuali, i quali offrono già una traduzione ‘ufficiale’. Ci poniamo di fronte allo scritto e insieme cerchiamo di volgerlo in italiano – chi con l’aiuto del dizionario, chi risalendo all’etimologia delle parole, chi utilizzando lessico acquisito. L’obiettivo è proprio portare in superficie la serie di informazioni stratificate che il testo di fronte a noi ci comunica, andando oltre la traduzione scolastica e accettando che la connotazione così densa di questi testi si lasci interpretare correttamente in più di un modo rigido e apodittico”. Del resto i testi che gli studenti devono tradurre sono testi letterari (storia, oratoria, filosofia, poesia di vari generi…), non comunicazioni quotidiane e richiedono quindi non solo la conoscenza delle strutture logico-sintattiche della lingua d’uso, ma anche una raffinata comprensione del funzionamento della lingua letteraria.

 

foto: Alessandro De Poli, docente di latino e greco al Liceo classico M. Gioia di Piacenza

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