Il mercato delle armi in Italia e nel mondo

Il 29 novembre il popolo svizzero è chiamato a votare su un’iniziativa popolare che vuole vietare alla Banca nazionale svizzera, alle casse pensioni e alle fondazioni di investire nelle imprese che realizzano oltre il 5% del loro giro d’affari annuo con la fabbricazione di materiale bellico. Le domande, che i promotori dell’iniziativa sollevano, riguardano il legame tra il capitale finanziario svizzero e il sostegno a conflitti armati in tutto il mondo, in contrasto, tra l’altro, con l’immagine della Confederazione quale mediatore diplomatico neutrale che promuove gli sforzi umanitari.

In Svizzera il giro d’affari delle esportazioni di materiale bellico nei primi nove mesi del 2020 ha ammontato a quasi 690 milioni di franchi − in crescita rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando il totale raggiungeva circa 500 milioni di franchi − e trova nell’Europa il più grande mercato di sbocco (anche se si tratta di Stati dove la merce viene “utilizzata o trasformata, raffinata o lavorata prima di un’eventuale riesportazione”, precisa la Segreteria di Stato dell’economia). 

Rimanendo con lo sguardo al continente europeo, fra i paesi dell’Europa occidentale, la Francia è quello che ha continuato a spendere di più nel 2019, con una spesa militare di 50,1 miliardi di dollari. Tuttavia, l’aumento maggiore tra i primi 15 paesi per spesa militare nel 2019 è stato registrato dalla Germania, la cui spesa militare è cresciuta del 10% raggiungendo i 49,3 miliardi di dollari. Sono questi i dati raccolti dallo Stockholm International Peace Research Institute. Nello stesso rapporto si mostra anche che nel 2019 la spesa militare mondiale abbia raggiunto i 1.917 miliardi di dollari, pari al 2,2% del prodotto interno lordo globale o a 249 dollari pro capite. La spesa complessiva del 2019 è aumentata dunque del 3,6% rispetto al 2018 e del 7,2% rispetto al 2010. 

Spese militari globali; per regione geografica, 1988-2019 Fonte: sipri military expenditure database, apr. 2020.

In questo quadro, l’iniziativa svizzera sull’export di armi porta a riflettere più in generale sul mercato mondiale di materiale bellico, a partire − tra l’altro − anche da quello italiano.

Ne abbiamo parlato con Maurizio Simoncelli, Professore, Vicepresidente e cofondatore dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo.

Prof. Simoncelli, partiamo dal Paese Italia: cosa dice la legge italiana sul finanziamento diretto di materiale bellico?

Non mi risultano specifiche leggi che vietino a istituti finanziari l’impegno nel settore, ma, a seguito di iniziative della società civile (come la “Campagna contro le banche armate”), la gran parte delle banche italiane, anche diverse tra le maggiori, si sono dotate di un codice di responsabilità sociale escludendo finanziamenti  e servizi a industrie della difesa. La Banca d’Italia comunque ha adottato già dal 2009 delle linee guida per iI contrasto del finanziamento dei programmi di sviluppo di armi di distruzione di massa. Avendo l’Italia poi aderito a trattati internazionali che vietano armi chimiche, biologiche, mine antiuomo, bombe a grappolo ecc., nel caso di un eventuale coinvolgimento in una di queste produzioni proibite, la magistratura italiana interverrebbe.

Quanto peso ha l’industria militare nell’economia italiana?

Non sono molti i dati disponibili e attendibili. Occorrerebbe sapere per ogni azienda quanto incide la produzione militare e quella civile per poi poter scorporare i dati globali, anche relativamente al fatturato dell’export e all’occupazione. Secondo fonti industriali, l’industria della difesa italiana occupa direttamente 45.000 addetti, più altri 110.000 circa nell’indotto diretto e indiretto. Ha un fatturato di 13,5 miliardi di euro, di cui il 70% è legato all’export, destinato per i due terzi a paesi non NATO e non UE. In particolare un terzo è diretto proprio verso l’area calda del Medio Oriente. In base ai dati del Ministero degli esteri sappiamo che tra il 2010 e il 2019 abbiamo esportato per 59,76 miliardi di euro, quindi con una media annuale di circa 6 miliardi, cifra che fa ritenere quelle fornite da parte industriale non congrue. Pur essendo un settore ad alta tecnologia, è comunque un ramo di nicchia, dato che l’intero comparto manifatturiero italiano occupa globalmente 4 milioni di addetti: solo il nostro export agroalimentare è arrivato nel 2019 a ben 44,6 miliardi di euro con 1,1 milione di occupati.

Con un sguardo longitudinale, il mercato delle armi ha subito battute d’arresto?

Il mercato mondiale delle armi da tempo non conosce crisi. È passato dai 19,3 miliardi di dollari nel 2000 ai 25,7 nel 2010 sino ai 27,1 del 2019. L’export mondiale è cresciuto del 5,5% tra i quinquenni 2010–14 e 2015–19. E i dati si riferiscono solo ai maggiori sistemi d’arma (aerei, navi, carri armati, artiglieria ecc.). È dai tempi della Guerra Fredda che non si arrivava a cifre del genere. In particolare, le guerre in Iraq, in Libia, in Siria e nello Yemen sono trainanti per queste produzioni. Da un lato si afferma di sostenere la pacificazione di queste aree, dall’altro l’invio continuo di armi e di munizioni a forze armate regolari e a formazioni autonome contribuisce al prolungamento di questi conflitti. Quel che preoccupa è il fatto che i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, cioè l’organo che dovrebbe vigilare sulla pace nel mondo, sono i maggiori esportatori di armi e munizioni. Ad essi si affiancano Germania, Spagna, Israele, Italia e Olanda (per rimanere tra i primi 10 esportatori mondiali).

Le parole di papa Francesco, “no porti chiusi alle persone, sì porti chiusi alle armi”, sono concretizzabili in fatti?

I quasi 80 milioni di profughi del 2019 fuggono proprio da guerre e persecuzioni. Spesso l’opinione pubblica non è informata adeguatamente in merito. La società civile è riuscita a far approvare leggi sul controllo dell’export di armi sia in Italia (l. 185 del 1990) sia a livello europeo (Posizione Comune, 2008), sia in ambito internazionale (Arms Trade Treaty, 2014). Inoltre sono state bandite le mine antiuomo (1997) e le munizioni a grappolo (2010). L’Italia ha firmato questi accordi internazionali e, ad esempio, da grande produttore di mine antiuomo oggi è impegnata nell’azione internazionale di sminamento con un apposito Comitato (CNAUMA) presso il Ministero degli Esteri. In Europa vi è stata recentemente una mobilitazione per impedire carichi di armi destinati alla guerra nello Yemen e in Italia gli addetti del porto di Genova sono riusciti a bloccarli più volte. Nel 2017 l’ONU ha approvato un Bando per la proibizione delle armi nucleari con 122 voti favorevoli (che entrerà in vigore il prossimo gennaio), ma i paesi armati nuclearmente e i loro alleati (tra cui l’Italia) non hanno partecipato neppure alla votazione. Purtroppo, non di rado, anche i governi che hanno firmato questi accordi non li rispettano e trovano il modo di aggirarne le norme. 

Nel passato le guerre hanno fatto da traino all’industria civile. È ancora così?

Certamente nel passato, anche recente, le guerre sono state un acceleratore nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie: basta pensare ai radar, ai navigatori satellitari, alla microelettronica, all’energia nucleare o alle reti informatiche. Nel settore della ricerca e sviluppo (R&S) della difesa i paesi più sviluppati hanno speso nel 2017 ben 68,3 miliardi di dollari. Gli elevati e continui fondi a disposizione della R&S in ambito difesa, con relativo segreto militare, disincentivano però a spostare l’innovazione dal settore militare a quello civile. Questo concentra la R&S in ambito militare, drenando le maggiori risorse e i migliori cervelli verso questo comparto: negli USA la R&S militare rappresenta ben il 43,5% della loro spesa totale per la R&S. Inoltre così si rafforza il binomio forze armate-industria della difesa, la cui forte capacità d’influenzare anche la politica estera fu oggetto di preoccupato monito già nel 1961 da parte del presidente statunitense Eisenhower (da lui definito complesso militare-industriale) in quanto spinge a privilegiare l’intervento armato rispetto a quello diplomatico.

Quali sono le condizioni che possono favorire la vendita illecita delle armi a livello internazionale? E che strumenti ci sono per contrastare tale mercato nero?

Occorre distinguere tra armi piccole e leggere (pistole, fucili, mitra, mitragliatrici, lanciarazzi, ecc.) e maggiori sistemi d’arma. Questi ultimi sono commerciati tra governi e la loro mole, nonché le esigenze complesse e specifiche necessitano di personale specializzato e di risorse elevate. Per le prime, invece, è facile un passaggio da una prima vendita legale ad un ambito illegale destinato a forze armate irregolari, terroristi, delinquenza organizzata. Costi contenuti, dimensioni ridotte, facilità di uso e di trasporto ne permettono la diffusione, soprattutto nelle aree di crisi e di conflitto come nel Medio Oriente e in Nord Africa. Il mercato legale di queste armi è stimato in oltre 6 miliardi di dollari. Esistono molte leggi, regolamenti e controlli sul traffico clandestino, adottate a livello nazionale, regionale e internazionale (l’Accordo di Wassenaar, la Convenzione ONU contro la criminalità organizzata transnazionale, il Programma d’azione ONU sulle armi di piccolo calibro, lo Strumento internazionale di tracciamento, l’ATT, ecc.), ma la diversità normativa tra gli stati e la loro differente capacità d’intervento in materia fa sì che sia ancora difficile fermare tali traffici.

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