Il populismo è morto, viva il populismo!

Nel solco della stagione politica turbolenta innescata dalla mozione di sfiducia al premier Giuseppe Conte, le previsioni su cui fa perno la teoria politica classica rischiano di andare a farsi benedire.

Della teoria dell’elettore mediano, ad esempio, rimangono solo le briciole, mentre l’elettorato sembra – sondaggi alla mano – aver spostato progressivamente i propri interessi verso forze politiche altamente divisive, che fanno dello scontro la propria migliore arma politica. Niente più “politica dei piccoli passi” à la Agostino Casaroli, il cardinale artefice della Ostpolitik della Chiesa cattolica, che consentì una progressiva entratura nei paesi sovietici, culminata con lo sciopero del sindacato bianco Solidarnosc in chiave anticomunista nella Polonia nel 1980. Niente “divi” alla Giulio Andreotti, capace, grazie all’interpretazione politica del suo celebre motto “Essendo noi uomini medi, le vie di mezzo sono per noi le più congeniali”, di rimanere in sella a ben sette esecutivi, destreggiandosi per oltre un ventennio di storia repubblicana circoscritta tra gli estremi della stagione del terrorismo rosso e quella dello stragismo nero.

Molto più popolari appaiono oggi i leader politici che assumono posizioni nette, permettendo una facile identificazione – favorita da un uso spregiudicato della comunicazione social – con i propri elettori.

E che sia frutto di una progressiva spoliticizzazione dovuta alla sfiducia nella classe dirigente o alla diffusione dei social network che favoriscono un incontro non mediato tra popolo e leader politici, oppure ancora ad una rivoluzione antropologica post-umanistica, dove il dialogo lascia il posto al comunicato digitale (che per sua natura è definitivo e senza appello), le virtù pubbliche sembrano sempre più adeguarsi ai vizi privati. Con la conseguenza che anche le preferenze dell’elettorato non seguono più il centro ideale dove convergono le differenti proposte politiche, ma piuttosto gli estremi, dove proliferano concetti accantonati da tempo, come rivoluzione e populismo.

Concepisce se stessa come forza rivoluzionaria, ad esempio, la Lega di Matteo Salvini che proprio in queste ore, per bocca del governatore del Veneto Luigi Zaia inneggia ad una risposta di piazza al vituperato inciucio “Pd-5Stelle”.

Mentre, al contempo sono i 5Stelle – sulla cresta dell’onda per il 79% di sì tra gli iscritti – a rivendicare il record di voti su una piattaforma online in merito ad un quesito politico (quello riguardante la volontà di formare un nuovo governo con premier Conte in alleanza con il Pd), facendosi così ideali interpreti dell’utopia di una democrazia diretta all’interno di una repubblica parlamentare. Un ritorno al populismo sì, ma visto in accezione positiva.

Cos’hanno dunque in comune oggi Movimento 5 Stelle e Lega e perchè i sondaggi continuano a vederli come le prime due forze politiche in Italia, nonostante la fine dell’alleanza?

Dietro un approccio comunicativo “di pancia”, forse, si cela qualcosa di più profondo: quello che Chantal Mouffe, intellettuale francese vicina a France Insoumise di Melenchon, identifica nel cosiddetto “momento populista”, frutto di una crisi economica – quella del 2008 – “che ha portato in primo piano le contraddizioni del modello neoliberale, che vede adesso la propria egemonia messa in discussione da movimenti anti-establishment provenienti sia da destra che da sinistra”. È legittimo – spiega in “Per un populismo di sinistra”, Laterza 2018, parlare di momento populista quando “sotto la pressione di trasformazioni politiche o socioeconomiche, l’egemonia dominante è destabilizzata dalla moltiplicazione di domande insoddisfatte. In queste situazioni, le istituzioni esistenti non riescono ad assicurarsi la fiducia delle persone, poiché tentano di difendere l’ordine costituito. Come risultato, il blocco storico che fornisce la base sociale della formazione egemonica si trova disarticolato ed emerge la possibilità di costruire un nuovo soggetto di azione collettiva – il popolo – capace di riconfigurare un ordine sociale sentito come ingiusto.

Se le premesse sono davvero queste, allora la scelta di Matteo Salvini di schierarsi all’opposizione, mentre i suoi avversari politici metteranno la firma su una manovra economica fortemente condizionata dai vincoli imposti da Bruxelles, potrebbe a medio termine, rivelarsi una strategia vincente. Trasformando i prossimi mesi nella fase preparatoria di un nuovo plebiscito verde.

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