Mentre il gioco della domanda-offerta fa il suo corso proponendo barattoli di amuchina e mascherine a prezzi esorbitanti, nella cosiddetta “zona rossa” del focolaio lombardo di Coronavirus i cittadini sembrano aver riscoperto il valore del bene comune. Dal primario dell’ospedale di Codogno tornato in fretta e furia dalle ferie ai sanitari dell’ospedale di Piacenza al lavoro anche a notte fonda per contenere il contagio, passando per gli impiegati dei servizi pubblici essenziali, gli ingranaggi della macchina statale sembrano aver trovato, nell’emergenza, nuova linfa. Ma quali saranno gli effetti politici e sociali di questo ritrovato senso dello stato? Ne abbiamo parlato con Geminello Preterossi, professore di Filosofia del diritto e di Storia delle Dottrine politiche all’università di Salerno.
Professore, la paura generata dall’epidemia di Coronavirus che effetti avrà sul fronte politico?
In Italia qualcosa già si intravvede, da più parti c’è stata strumentalizzazione. Qualcuno sta cercando un risultato politico, come un governo di solidarietà nazionale che faccia fuori Conte. Non mi riferisco solo a Salvini, ma parlo anche di Renzi, ad esempio. Ma è interessante anche ragionare su eventuali effetti di fondo: che cosa ci svela questa vicenda? Una grande fragilità del cosiddetto mondo globale, perché vediamo una cosa ovvia che l’ideologia globalista ha negato: quando c’è un problema serio ci si rivolge alle istituzioni e allo stato, ovvero ai poteri politici (e non economici) che rappresentano una comunità politica nazionale. C’è una politicità inaggirabile, ed è molto rilevante. Tutte le fesserie che si sono sentite sul tramonto dello stato negli ultimi 30 anni, sembrano di colpo trovare una smentita. I poteri indiretti – che una volta erano le chiese, e oggi sono i poteri economici ammantati di ideologia – non prendono mai la responsabilità di decisioni importanti. Questo è un punto fondamentale: proprio il mondo globale sembra aver bisogno degli stati e della cooperazione tra stati. Uno stato mondiale è un assurdo. Lo abbiamo visto dall’89 in avanti. Il mondo è un pluriverso ed è un bene che sia così. Un unico governo mondiale finirebbe per omologare gli altri e sarebbe del tutto irrealistico. Bisogna ripartire da stati che rispondano democraticamente ai propri cittadini. Aggiungo che, nella vicenda Coronavirus, l’Europa non ha brillato e se ne sono accorti anche esponenti del governo italiano. Per un mese c’è stata una grave sottovalutazione del problema e non ci sono nemmeno state riunioni. Purtroppo ancora una volta, l’Unione Europea ha dimostrato di essere assente o in mano a chi ha più potere. Abbiamo una moneta senza stato (che è di per sé un assurdo) e un’Unione che non agisce in nome di un dovere verso la collettività ma in nome degli interessi dei più forti, tedeschi e francesi in primis.
Colpiscono le tante testimonianze di addetti alla sanità e alla sicurezza che in queste ore si riscoprono orgogliosamente servitori dello stato. Ci sarà a medio termine anche un incremento di fiducia nei confronti delle istituzioni e dello stato? E si avranno prove di questo anche nel tasso di astensione alle prossime politiche?
Non è un effetto automatico, dipenderà dall’efficacia della risposta dello stato. Siamo in una situazione intermedia. I rischi che l’epidemia si allarghi ci sono, ma c’è anche – forte – la reazione delle istituzioni. Non me la sento in questa fase di gettare la croce addosso a nessuno perché c’è stata una presa in carico seria del problema. Vero, nemmeno la scienza va assolutizzata e deve sempre esserci un confronto, ma è altrettanto opportuno che ci sia alla fine una voce unica, che le istituzioni sanitarie mi sembrano avere per ora. E così si ottengono risultati. Molto dipenderà da come evolverà la cosa. Vicende del genere fanno inevitabilmente riscoprire una gerarchia tra le cose importanti e quelle superflue in questa fase, come gli interessi di parte e il chiacchiericcio plastificato dei social e media tradizionali, dove la post-verità sembra del sistema. La sfiducia nelle istituzioni, purtroppo, è anche frutto della sfiducia nei media che si sono auto-delegittimati, non essendo stati credibili, a partire dalla gestione mediatica durante la crisi finanziaria in cui, in maniera ottusa, hanno diffuso le vecchie ricette di austerity, una forma di fidelismo terrificante quella di certi sacerdoti del liberismo. Oggi, grazie all’epidemia, si è riscoperta l’importanza della politica e delle istituzioni pubbliche e, spero, si andranno a ridefinire le gerarchie per una rinascita etico-civile della nostra comunità. La crisi globale del capitalismo può produrre eventi catastrofici. Ma servirà recuperare anche un ruolo critico della stampa: i media, da strumento fondamentale della democrazia, sono diventati uno dei principali problemi, perché non alimentano un pensiero critico. Quando ci si stringe a corte e si fa poca inchiesta, questi sono gli effetti. Inutile stupirsene: così si trasforma la propria immagine del reale nel reale stesso. Ma l’establishment è completamente separato dalla realtà e nemmeno se ne accorge, salvo poi stupirsi del risultato elettorale di Trump o di Johnson. Un grande problema per la democrazia.
Un grande filosofo contemporaneo, Giorgio Agamben, ha rispolverato in questi giorni la categoria dello “Stato di eccezione”. È corretto utilizzarla in questo contesto?
Lo stato d’eccezione è essenzialmente tecnocratico. Si sospende la politica in nome della tecnica – quello che è avvenuto durante l’ultima crisi economica con il cosiddetto governo tecnico. Nello specifico, non sono però così convinto che si possa leggere tutto in questa chiave. In generale oggi la politica e le istituzioni funzionano sempre più con logica emergenziale e si attivano di fronte alle specifiche emergenze (clima, migranti, Coronavirus). Un pretesto per derogare alle fonti del diritto e governare attraverso prassi organizzative: l’emergenza diventa una via per aggirare i vincoli e operare dal punto di vista amministrativo-tecnocratico. Rispetto a quello che sta accadendo in Emilia, Veneto e Lombardia, parlerei piuttosto di stato di emergenza. Qui c’è un’emergenza vera, non creata ad hoc per fini altri, che viene affrontata con strumenti non ordinari (a partire dalle ordinanze sindacali e regionali, n.d.r.). Succede anche in Francia nel contesto della lotta al terrorismo. C’è una tendenza a utilizzare questo dispositivo, anche oltre l’emergenza e questo sarebbe un problema. Ma se non c’è un uso debordante e smodato, rivolto ad altri fini, direi che ci si colloca in una modalità di funzionamento del potere pubblico molto emergenzialista. D’altro canto, in questo modello di globalizzazione, tanti stati fanno fatica a fare ordine e creare un modus vivendi diverso dalla libera circolazione di persone e capitali. Siamo tutti interconnessi.
Veneto Lombardia e Emilia, tre sistemi sanitari diversi, tre modi diversi di gestire la crisi attraverso la regionalizzazione delle ordinanze. Prove tecniche di federalismo?
Direi piuttosto segnali di confusione in ordine sparso. Anche le Marche hanno deciso la chiusura delle scuole, ad esempio, nonostante non ci siano ad ora casi di contagio. Non so cosa succederebbe nel resto d’Italia se i casi aumentassero. Tutto parte dalla riforma sbagliata del titolo V della Costituzione: su questioni di fondo, la competenza dovrebbe essere del potere centrale; esiste una responsabilità del governo che è quella dell’ordine generale complessivo e sociale. Il che implica uniformare disposizioni e risposte a certi problemi e sorvegliare affinché le direttive vengano osservate, indipendentemente dal fatto che la sanità sia gestita a livello regionale in modo diverso e autonomo. L’idea di fondo è che la responsabilità finale è del potere centrale, ma sempre sotto il controllo del parlamento. Uno stato federale – sull’esempio degli Stati Uniti – non è uno stato in cui gli stati membri fanno quello che vogliono. Anche quello tedesco è uno stato federale in senso lato (i lander hanno forti autonomie), ma dentro un impianto di stato-nazione. Noi non siamo né uno stato federale né una confederazione, ma un certo recupero di autorità centrale lo vedo positivo. E penso si stia affermando questa consapevolezza anche tra i cittadini.
Da pochi giorni è arrivato il messaggio dall’alto di rassicurare i cittadini, non solo per evitare il panico, ma anche per ragioni economiche. Ma quando il governo ha deciso di chiudere i luoghi di assembramento è stato esagerato? Non sono in grado di rispondere. Bisogna anche stare attenti a non adottare misure troppo leggere. Penso si sia guardato all’esempio della Cina che è stata fermissima e ha avvertito il rischio di una cosa che sfuggisse di mano. Vogliamo dire che c’è stata un’esagerazione? Certo che c’è paura di quei poteri indiretti e finanziari di cui parlavamo prima, ma deve prevalere la volontà di tutelare le persone.
È giusto preoccuparsi di chi arriva dalle frontiere in questo momento? C’è stato secondo lei troppo lassismo?
Bisogna essere seri per carità, ma non bisogna creare allarmismo e avere ossessione di questo genere. L’Italia è stato l’unico paese a bloccare i voli dalla Cina, anche se non è riuscita a impedire le triangolazioni. Può essere che si sia stata qualche sottovalutazione nei controlli all’arrivo, ma anche la scoperta che il controllo termico non bastava per arginare i contagi è stata tardiva. Impossibile poi fare tamponi a tutti quelli che arrivano dall’estero. La Lega, ma soprattutto Salvini, sta cavalcando l’uso politico di temi caldi, ma non c’è da scandalizzarsi. Però uno che ambisce a una leadership politica nazionale deve anche sapersi porre un limite. Dare l’impressione di cavalcare troppo l’emergenza non so quanto sia promettente sul fronte del consenso. Salvini è un po’ ondivago, un po’ rassicura e un po’ cerca di capitalizzare. Ma non c’è solo Salvini. Tutti gli attori politici stanno pensando a come capitalizzare il virus. Il problema è che la nostra classe politica, così come quella imprenditoriale e sindacale, è di basso livello. E questo sarà un banco di prova importante per un sistema così in decadenza. Abbiamo forse l’occasione, finalmente, di un colpo d’ala.