Il ruolo del teatro per la diffusione dell’italiano

di Sauro Giornali

Il 22 ottobre 1441 Leon Battista Alberti organizza a Firenze un concorso letterario diverso dal solito, il “Certame coronario”. La ragione che fa di questo episodio un caso storico è che si tratta di un concorso in lingua volgare (cioè, se vogliamo, in italiano). A noi può sembrare un dettaglio trascurabile, ma diventa importante se pensiamo che fino a quel momento era stato il latino la lingua delle belle lettere; l’evento del “Certame” ci dice quindi che gli intellettuali del Rinascimento riconoscevano all’italiano la stessa dignità del latino, lingua ben più antica e solida del suo giovane discendente.

Quel concorso è diventato famoso anche perché è stato l’occasione per ravvivare una discussione vecchia quanto l’italiano stesso, e cioè: in un territorio, l’Italia, che non aveva un centro politico unico, ma accoglieva almeno una decina di centri culturali e di capitali, quale lingua si doveva adottare?

Il lungo dibattito che segue per rispondere a questa domanda ha preso il nome di “Questione della lingua italiana”, ed è ancora oggi un argomento di discussione.

La questione della lingua può essere affrontata da molti punti di vista: l’italiano usato nei romanzi, nella poesia, nelle canzoni, nei documenti ufficiali, nella scienza, il peso di Firenze e della Toscana, e il contributo degli autori non toscani. In concomitanza con la XIX Settimana dell’italiano nel mondo (21-27 ottobre 2019) proviamo a rispondere a questa domanda: l’italiano usato a teatro ha avuto un ruolo nell’evoluzione della nostra lingua?

Per rispondere ripercorriamo qualche tappa della storia di questa arte.

Il 25 gennaio 1486, il teatro fa in Italia il suo primo passo con la traduzione anonima della commedia “Menaechmi” di Plauto. E si dirà: ma perché, prima di questa data non c’erano spettacoli teatrali? Sì e no, nel senso che il teatro era una forma spettacolare limitata a piccolissime compagnie di giullari e cantastorie, che facevano spettacoli privati o nelle piazze (nel Medioevo infatti il teatro laico era vietato, in pubblico si accettava solo il teatro pubblico). La commedia dei “Menaechmi” tradotta in italiano e rappresentata davanti al pubblico metteva fine a questo divieto.

L’italiano usato per la traduzione è una koiné settentrionale, una lingua interregionale, probabilmente esistente solo nello scritto, ma in genere comprensibile in tutte le corti del nord Italia e in Toscana. Più tardi, anche Ludovico Ariosto torna a usare questa koiné nella scrittura della prima commedia moderna, “La Cassaria”, nel 1508.

Poi però, il problema della lingua italiana si evolve, e proprio Ludovico Ariosto orienta l’italiano verso Petrarca, cioè verso un italiano letterario che già allora si studiava come una lingua morta. La scrittura teatrale si adegua a questo indirizzo, anche se qualche autore capisce che se si vogliono rappresentare sulla scena delle persone normali, come operai, contadini o lavandaie, queste non possono parlare come Petrarca, e così si ricorre al dialetto. È a partire da questo punto che i ruoli si dividono in personaggi che parlano in italiano letterario petrarchesco (l’aristocrazia e i padroni) e quelli che parlano in dialetto (i servitori, i popolani e i soldati): si apre l’epoca del plurilinguismo sulla scena.

La commedia dell’arte cristallizza il plurilinguismo, affidando alla lingua una differenziazione psicologica: i personaggi che parlano dialetto sono popolani sguaiati e affamati, ma anche intelligenti e pragmatici, mentre i personaggi di lingua italiana sono altolocati, sentimentali e un po’ naif. La commedia dell’arte non usava dei testi teatrali scritti, ma l’improvvisazione su un tema, per questo si potrebbe dire che questo tipo di teatro genera un vuoto linguistico: non ci sono testi scritti, e sulla scena si usa l’italiano letterario, che aveva una bassissima incidenza sul pubblico, e il dialetto.

A metà del Settecento, si verifica il più serio tentativo di riforma della lingua scenica, quando Carlo Goldoni propone commedie completamente scritte in un italiano “parlato”, o almeno che potesse essere inteso come tale. Il progetto goldoniano è ambizioso, ma la riforma viene abbandonata dallo stesso autore, e l’italiano torna in una dimensione irreale e letteraria.

Il colpo di grazia al tentativo di trovare un italiano credibile per il teatro viene dato dal Romanticismo, un genere artistico che vuole rappresentare sentimenti assoluti e drammi di grandi eroi. Il teatro torna sempre più indietro, all’italiano letterario e addirittura arcaizzante.

Poi nel 1840, Alessandro Manzoni, pubblica la terza edizione de “I Promessi sposi”, quella “sciacquata in Arno”: finalmente, ispirandosi al fiorentino contemporaneo, Manzoni dà all’italiano una veste più viva e moderna. Con l’italiano manzoniano si scrivono i drammi del teatro borghese del secondo Ottocento. La situazione è migliorata, ma siamo ancora lontani da situazioni realistiche e credibili: manca ancora l’italiano medio, quello di tutti i giorni.

Lo stato unitario, la diffusione dei giornali nazionali, l’avvento della radio e il tentativo di riforma linguistica del Fascismo, fanno fare altri passi avanti, in attesa della tv, vera unificatrice linguistica della Penisola.

Aspettando il piccolo schermo, è proprio il teatro che sembra dare un’indicazione per il futuro dell’italiano. Negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, Eduardo De Filippo propone il suo teatro di gente comune, dove i personaggi passano con naturalezza dall’italiano al dialetto napoletano, seguendo un flusso piano e spontaneo. Il teatro di De Filippo fotografa la realtà linguistica del paese, una combinazione di italiano e la lingua locale e familiare; il bilinguismo italiano-dialetto toccherà una larga parte dei parlanti, e porterà agli italiani regionali contemporanei.

Ma allora, concludendo, il teatro ha avuto un ruolo nell’evoluzione dell’italiano? Si potrebbe rispondere: relativamente. Essendo stato uno spettacolo molto popolare, ha necessariamente influenzato l’uso e lo sviluppo della lingua. Ma l’intenso ricorso alla lingua letteraria ha limitato la formazione della lingua media, accessibile a tutti.

Si potrebbe allora dire che la storia del teatro testimonia la difficoltà dell’affermazione di una lingua nazionale, ostacolata da difficili condizioni politiche, economiche e culturali.

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