La cura oltre il male

di Beatrice Bernasconi

Curare non è guarire: può sempre essere praticato, anche se non esiste rimedio; è un verbo che declina le relazioni migliori e può umanizzare tutta la vita, dalle cure parentali alle azioni che sviluppano le relazioni, dalle più intime alle più lontane, fino a quelle specialistiche.

La cura può migliorare la qualità della vita anche se non c’è altro traguardo che la fine del proprio tempo.

I migliori specialisti da sempre hanno guardato ai pazienti come soggetti con cui creare un legame terapeutico che considerasse non solo lo stato fisico, ma anche quello psichico, sociale, affettivo, con la storia unica della persona, i suoi bisogni, le paure, le domande, i desideri: vera energia sommersa su cui può fare leva il corpo malato.

Dagli anni Settanta questa pratica è diventata una traccia teorica fondamentale per la formazione del personale sanitario spostando l’approccio da “biomedico” a “bio-psico-sociale”(*).

Lo stravolgimento dei reparti nel periodo di massima diffusione del COVID-19 ha mostrato l’attenzione di tantissimi sanitari ai bisogni emotivi dei pazienti, impegno tanto più encomiabile pensando al carico schiacciante cui erano sottoposti: li hanno collegati ai parenti ormai irraggiungibili con telefonate e tablet, hanno stretto mani, pronunciato parole di conforto, si sono fatti depositari di un ultimo messaggio. Tutto ciò non aveva bisogno di spiegazioni: era evidente che la “cura” fosse importante al pari delle “cure”; ce lo hanno testimoniato i sopravvissuti: il senso di solitudine, di separazione, sono stati un male pesantissimo da sopportare. Solo qualche cappellano ha potuto affacciarsi alle stanze per una parola.

Ora che sembra superata la fase più acuta si guarda al futuro: si saprà tener conto di quanto è successo? Prevarranno le logiche di bilancio (ma nulla è immutabile, lo abbiamo visto) o si proverà ad allargare lo spazio per le professioni della “cura”?

Ho chiesto a Grazia Marchini di parlarci della sua esperienza su questo tema.

La Dott.ssa Marchini è coordinatrice dal 2004 del Corso di Laurea in Educazione Professionale all’Università degli Studi dell’Insubria e nel 2014 ha promosso il Master Educare in ospedale.

Come nasce l’idea del Master?

La scintilla da un open day della Scuola di Medicina: dovevamo fare la ripresa di colloquio educativo e si era resa disponibile un’attrice che viveva realmente anche la fatica di un tumore. Fu molto complesso: lei iniziò a piangere e continuò fino alla fine delle riprese; non potevo interrompere. A telecamere spente le comunicai il mio dispiacere, ma lei inaspettatamente mi rincuorò con parole che non posso dimenticare: “Proprio di questo ho bisogno: qualcuno che percorra con me questo tratto di vita”. Questo dialogo mi spinse a uno studio di esperienze educative nei percorsi di malattia.

Iniziò da lì il Master “Educare in ospedale”: con molti professionisti diversi iniziammo a riflettere sul senso della malattia e quale potesse essere l’aiuto portato da un educatore con il proprio sapere.

Promuovemmo tirocini sperimentali in vari reparti ospedalieri: pediatria, oncologia, ginecologia e ostetricia, geriatria, neurochirurgia, sub-acuti ecc. che aprirono spazi di ricerca densi di senso e significato: ogni reparto presentava suoi specifici bisogni.

Ascolto e osservazione sono state la base del primo approccio: abbiamo raccolto testimonianze, fatiche, sconforti, ma anche ricchezze: siamo diventati attenti lettori dei contesti, scoprendo che occorreva entrare in quei luoghi in punta di piedi. Abbiamo provato a progettare, definendoci per differenza rispetto agli altri operatori sanitari.

Un approccio coraggioso e concreto: cosa vede un educatore in reparto?    

Le storie di malattia sono storie intense di vita: diventa evidente che la salute sia un bene prezioso e che paradossalmente diventiamo più coscienti del corpo quando “pesa a se stesso”, altrimenti è un alleato silenzioso che diamo per scontato. Abbiamo raccolto queste storie in un libro che il Master ha ispirato “EduCare. La presa in carico educativa del malato” : per noi il punto zero per  iniziare a lavorare in ambiti prettamente sanitari ma con grandi bisogni educativi.

Cosa avete sperimentato: qual è l’intervento educativo possibile?

È cura dell’esistenza dell’altro, presa in carico della persona globalmente, ricercando quell’unione di corpo e mente che da sempre è la grande sfida della cura. Poter ritornare alla vita di tutti i giorni più consapevoli delle proprie potenzialità a volte inespresse e fatte emergere dalle situazioni di grande fatica psico-fisica diventa una risorsa importante.

Troppo spesso si è carenti di coraggio; abbiamo perso e non più trasmesso il senso del limite dato dalla morte, non ricordandoci più di essere mortali fin dalla nascita.

Un’educazione con un’idea di uomo reale e perciò anche fragile…

Imparare a stare con e nella sofferenza, senza rimuovere il dolore e la morte, è il primo atto di presa in carico. Condividere le forti emozioni, sostenere la vita che è andata a fondo, stare accanto a chi ha  l’esistenza travolta dalla malattia. Riuscire a sostare negli spazi di vita difficili, fare in modo di attivare processi di resilienza dando così la possibilità di resistere agli urti della vita.

Voglio citare Heidegger quando ci sollecita ad una cura che non si sostituisca all’altro, che il nostro operato non avvenga nel segno del dominio, insegnando a prendersi cura di sé.

Entrare in punta di piedi come dicevi… Con uno sguardo al sistema dei pazienti, cosa avete visto del contesto?

Abbiamo incontrato e raccolto anche le fatiche del personale sanitario troppo spesso lasciato solo, tra tagli di fondi e turni insostenibili, senza spazi per rielaborare i sentimenti, le frustrazioni, le difficoltà; familiari immersi nelle preoccupazioni circa il destino dei propri cari. Avere un approccio olistico alla persona significa anche avere uno sguardo che ricompone l’intero nucleo familiare.

Il nostro studio è continuato con il rientro a casa dei pazienti e quindi il collegamento con il territorio. L’esperienza che oggi ci colpisce, quella del COVID-19, ci ha fatto riscoprire la ricchezza delle abitazioni, la necessità di dare cura capillare, di essere accanto a coloro che vivono in solitudine.

Forse non è questo il segreto? Poter ancora desiderare la vita, anche quando la malattia interviene pesantemente a cambiarla? Sono spunti interessantissimi per un nuovo approccio nella sanità. E oggi?

Nel 2018 le ricerche sono confluite nella costituzione del “Centro di Ricerca per la Cura Pedagogico-Educativa”: il desiderio è investire in un’educazione sanitaria che formi educatori in grado di prendersi cura della persona con la propria malattia, di promuovere prevenzione come formazione ad assumere stili di vita corretti, e saper gestire la cronicità per un benessere ancora possibile.

 

(*) Un buon testo per approfondire: “Il corpo paziente. Da oggetto delle cure a soggetto della relazione terapeutica”, a cura di Lucia Zannini (2004).

 

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