La democrazia non è uno stato, è un atto

di Alessandro Sandrini

La democrazia non è uno stato, è un atto”. Così Kamala Harris, citando il leader della lotta per i diritti civili John Lewis, ha esordito nel suo primo discorso come vicepresidente eletta degli USA. Kamala Harris ha parlato a braccio per una decina di minuti, in modo chiaro e diretto, ma senza che le sue parole sembrassero slogan o frasette utili per insultare un nemico via Twitter.

La democrazia americana non è garantita… È forte solo se abbiamo la volontà di difenderla e non darla mai per scontata”.

Noi in Italia ne sappiamo qualcosa. “Le minacce alla democrazia cambiano – disse l’anno scorso Mattarella in occasione della inaugurazione di un aula universitaria dedicata a Massimo D’Antona, il giurista assassinato nel 1999 dalle Brigate rosse – ma si deve ricordare che vi è un patrimonio di valori e di istituzioni che va sempre difeso insieme”.

La democrazia come atto, come condizione in divenire, quasi come lo Streben hegeliano, è il fattore propulsivo di un vero progresso, e “c’è progresso quando la difendiamo perché noi il popolo abbiamo il potere di costruire un futuro migliore”.

Ma perché il discorso della Harris ci colpisce così tanto?

La democrazia è nata ad Atene nel IV a.C., a poche centinaia di chilometri da noi. Ma per certi versi ad anni luce. La democrazia ateniese di Pericle era una semplice società di tipo assembleare, cui potevano partecipare solo i cittadini liberi e maschi della polis, circa il 10% della popolazione. Per l’aristocratico Platone, la democrazia era una piacevolissima forma di governo, piena di varietà e di disordine, e dispensa una sorta d’eguaglianza agli uguali come agli ineguali.

Il filologo classico Luciano Canfora, nel suo libro Il mondo di Atene, spiegava che “in una società complessa le élite più forti culturalmente, socialmente ed economicamente accettano il sistema politico e lo dirigono.”

Ma ciò che fa la differenza è che ad Atene queste élite accolgono un’importante sfida: i signori che hanno la ricchezza governano un’assemblea popolare, quindi accettano di essere da essa contestati, e anche di essere messi in minoranza nelle decisioni da prendere. I cittadini della democrazia ateniese avevano un minimo di forza economica, che permetteva loro un’esistenza dignitosa non solo sulle spalle degli schiavi, degli stranieri e di tutti gli altri esclusi, comprese le donne, ma essenzialmente su alleati che erano diventati sudditi.

Atene era a capo di un impero di popoli assoggettati che pagavano il tributo. Da ciò proveniva la ricchezza della città. Max Weber disse che in effetti la democrazia ateniese era una gilda che si spartiva il bottino. 

Nella Guerra del Peloponneso, Tucidide riferisce dell’ultimatum che nel 416 a.C. i generali ateniesi posero gli abitanti dell’isola di Melo, nelle Cicladi: assoggettarsi al loro dominio come sudditi o perire come liberi. Il rifiuto dei Melii portò alla distruzione della città, allo sterminio di tutti gli uomini, alla deportazione di donne e bambini.

Ci va bene questo modello? Sì, se lo prendiamo come embrione di una presa di coscienza degli uomini che si sono fatti società. No, se smettiamo di pensare in modo tribale che la sopravvivenza e il benessere di un individuo, di una classe sociale o di una nazione debba darsi a scapito di altri.

Da qui, una delle questioni più complicate della democrazia: chi vince prende tutto? Se il 50 per cento più 1 vince le elezioni, il rimanente 49,9 per cento che fa? Deve rinunciare a ciò in cui crede, alla felicità cui aspira? Assoggettarsi e obbedire?

Forse ci aiuta Cicerone quando asseriva che “in una Repubblica è necessario rispettare questa regola: la maggioranza non deve avere il potere predominante.”

Nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776, si dichiara: “Tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati ”. Si parla di tutti gli uomini, non solo di quelli che vincono le elezioni.

Ma forse non basta, come scriveva Umberto Eco. In un articolo del 2014, egli rilevava un equivoco in questa “massonica e fiduciosa” formulazione, per cui “l’idea di felicità ci fa pensare sempre alla nostra felicità personale, raramente a quella del genere umano, e anzi siamo indotti sovente a preoccuparci pochissimo della felicità degli altri per perseguire la nostra”. E concludeva: “la dichiarazione d’indipendenza avrebbe dovuto dire che a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto-dovere di ridurre la quota d’infelicità nel mondo, compresa naturalmente la nostra, e così tanti americani avrebbero capito che non devono opporsi alle cure mediche gratuite – e invece vi si oppongono perché questa idea bizzarra pare ledere il loro personale diritto alla loro personale felicità fiscale”. (Espresso, 26.03.2014).

Quando Kamala Harris ringrazia tutti quelli che hanno “promosso e difeso l’identità della nostra democrazia e dei cittadini americani”, quando parla di Biden come di una persona che “sa guarire”, di un Presidente “per tutti gli americani” e non per i vincitori, quando dice che bisogna lavorare duramente “per salvare le vite e combattere l’epidemia, ricostruire l’economia, eliminare il razzismo sistemico, affrontare la crisi climatica e far guarire l’anima di questa nazione”, forse la felicità in questione non è quella fiscale o di qualche speculatore edilizio con un passato di bullo da college.

Ci voleva una donna figlia di un giamaicano e di un’indiana, immigrati alla ricerca di una vita migliore e non di conquista violenta, per risvegliare nella società americana e in tutti noi quello che Kant avrebbe potuto definire come un imperativo categorico: dobbiamo scegliere “la speranza, l’unità, la decenza, la scienza e la verità”. Tutti attributi della felicità.

Kamala Harris
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