La grande sfida di politica estera di Biden è la Cina

POLITICA AMERICANA: LA NUOVA PRESIDENZA

Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington de Il Corriere della Sera, parla dell’insediamento di Biden nello Studio Ovale, come di una partenza a razzo e a largo raggio: pandemia, crisi economica, climate change e immigrazione. Una serie di provvedimenti che non sono accolti con parole dolci da tutti. Tra gli scettici, non solo gli oppositori interni ma anche la Cina, la cui portavoce degli Esteri commentando la nuova stagione presidenziale ha detto “Gli angeli del bene possono trionfare sulle forze del male”.


 Di Amedeo Gasparini

A parte il rafforzamento dell’alleanza atlantica, il dossier di politica estera più scottante che l’amministrazione di Joe Biden dovrà affrontare sarà quello dei rapporti con la Cina. Negli ultimi lustri, Pechino non ha fatto mistero di voler raggiungere la primacy americana in diversi settori strategici. Commercio e tecnologia su tutti sembrano essere le tematiche di scontro maggiore tra Washington e Pechino. Come scrivono Ivan Krastev e Stephen Holmes (La rivolta antiliberale), «lo scontro imminente tra l’America e la Cina è destinato a cambiare il mondo, ma riguarderà il commercio, le risorse, le tecnologie, le aree di competenza e la capacità di plasmare un contesto globale in grado di ospitare gli ideali e gli interessi nazionali assai diversi dei due paesi.» Non è un caso che storicamente dunque gli Stati Uniti abbiano avuto molte relazioni con Taiwan a scapito della Cina comunista. Di quella maoista, in particolare, Washington non ne ha voluto saperne per anni. La Cina della prima parte della Guerra Fredda era chiusa, isolata, quasi irrilevante: si leccava le ferite all’indomani di una guerra civile senza precedenti ed essenzialmente era una spina nel fianco – più un competitor ideologico che economico – dell’Unione Sovietica.

Tuttavia, sotto l’amministrazione di Richard Nixon, con Mao Zedong nel febbraio 1972 ed in seguito con le aperture strategiche di Deng Xiaoping sono state gettate le premesse per una collaborazione fruttuosa tra Stati Uniti e Cina, nonché una sostanziale crescita di quest’ultima. Entrata nel WTO nel 2001 dietro l’insistenza di Bill Clinton, da allora la Cina ha goduto dello status di economia emergente. Il che era una forzatura palese già un decennio fa, quando il Dragone già dava segni di crescita esorbitante e, di riflesso, degna di monito da parte degli States. L’entrata della Cina nel WTO è stato forse il peccato originale che più di tutti è stato scontato dagli americani – gli “inventori” della globalizzazione – che presto si resero conto di non essere gli unici percettori dei dividendi del libero mercato. Come ha scritto Maurizio Molinari (Assedio all’Occidente), la Cina ha sfruttato l’adesione al WTO «per penetrare e insediarsi sui mercati senza rispettare le regole della concorrenza e della proprietà intellettuale, trasformando così la globalizzazione dei mercati in un gigantesco trasferimento di ricchezza a proprio vantaggio.» L’entrata nel WTO ha significato molto per Pechino: da allora la Cina è un ibrido di capitalismo e comunismo, nazionalismo e confucianesimo.

In questo senso, Xi Jinping è l’espressione perfetta della “nuova Cina”: quella che ha alzato la testa e che, attraverso questo inedito mix ideologico, intende porre fine al cosiddetto secolo delle umiliazioni. Credendo di essere arrivati alla “fine della Storia”, gli Stati Uniti hanno creduto che il loro momento unipolare e muscolare durasse in eterno: da qui la sterile guerra in Iraq che inevitabilmente ha spostato attenzione e risorse verso il Medioriente. Ad ogni modo, ancora troppo ad Ovest, dal momento che nel frattempo la Cina celebrava crescite a doppie cifre. Negli anni, Cina e Stati Uniti si sono legati sempre di più. Lo ha notato bene Fareed Zakaria (The post-American world): le relazioni economiche tra Cina e Stati Uniti erano e sono di mutuale dipendenza. A differenza della guerra fredda USA-URSS – realtà del tutto separate, con scarsissimi legami economici – quella tra USA-Cina avviene in una realtà geopolitica mista e multipolare, di compenetrazione delle economie, di interdipendenza commerciale, di spartizione del mercato e delle sfere del pianeta.

Pechino ha acquistato buona parte del debito americano, seppure il garante numero uno del debito USA sono gli americani. «I consumatori americani compravano merci prodotte in misura crescente in Cina; con la valuta incassata, i cinesi compravano titoli del Tesoro americano e con ciò fornivano risorse ai consumatori americani per comprare altre merci cinesi», ha scritto Danilo Taino (Scacco all’Europa). Difatti, come riferisce Federico Rampini (La seconda guerra fredda), «una grande nazione esportatrice ha bisogno di acquirenti per i propri prodotti; smettere di far credito a chi compra la sua merce, impoverire il proprio cliente, è l’ultima cosa che un buon commerciante farebbe […] La disaffezione dei cinesi dal dollaro farebbe calare la valuta americana, quindi renderebbe più care le esportazioni cinesi, e danneggerebbe proprio il made in China

E a proposito di Made in China, il Dragone persegue inesorabilmente la strada che ha tracciato a partire dal piano “Made in China 2025”. «La Cina ha già di fatto superato gli USA», scrive Giada Messetti (Nella testa del Dragone); «è il più grande produttore di acciaio, alluminio, navi, cellulari, computer, mobili, tessuti, capi di abbigliamento. È in grado di costruire in tempi brevissimi infrastrutture per le quali negli Stati Uniti occorrono lustri.» In prospettiva americana, non ci voleva dunque il flagello del Covid-19 a disabilitare interi settori e lasciare a casa milioni di lavoratori, proprio nel momento in cui la Cina corre, cresce e intende strappare il testimone della leadership globale agli Stati Uniti.

Ancora Krastev e Holmes: «Lo scontro imminente tra Cina e Stati Uniti senza dubbio riconfigura l’ordine internazionale in maniera significativa e pericolosa, ma sarebbe fuorviante immaginare “una nuova guerra fredda economica” come una replica della guerra fredda originale, imbevuta di ideologia. Questo conflitto potrebbe rivelarsi emotivamente esplosivo, anziché freddo e razionale da entrambe le parti, ma non sarà ideologico. Comporterà, invece, aspre lotte riguardanti il commercio, gli investimenti, la moneta e la tecnologia, nonché il prestigio e l’influenza internazionale.» La questione pandemica in questo senso ha fatto scuola: favorita dalla colpevole assenza di Washington nei suoi tradizionali teatri d’influenza, la Cina si è presentata come autorevole e magnanima salvatrice dei vecchi paesi europei e dei giovani paesi africani. La ex “fabbrica del mondo” è stata in grado di dispiegare un’impressionante macchina di aiuti – non gratuiti, ben inteso – proprio come un tempo avrebbero fatto gli americani.

Uno dei pochi meriti della politica (estera) di Donald Trump – sebbene la cosa fosse già nota ai policy maker – è stato senza dubbio quello di alzare la voce nei confronti della Cina. D’accordo, quello di Trump è stato un grande show che ha portato ben a poco (l’equilibrio commerciale col Dragone non è stato ristabilito, molte aziende nono son tornate negli USA), ma se non altro ha popolarizzato l’issue Cina. Biden adotterà una postura simile ai contenuti – non ai toni – del suo predecessore nella politica nei confronti di Pechino. Se il decoupling tra le due economie è impossibile e forse neppure desiderabile, la Cina deve però rispettare le regole della concorrenza e del libero mercato: basta dumping salariale, furto di tecnologie, manipolazioni della moneta. Oltre alle questioni dei diritti umani sistematicamente violati in territorio cinese, sono questi i temi che Biden dovrà approcciare – con gli alleati – vis-à-vis Pechino e il suo allarmante ed aggressivo espansionismo.

www.amedeogasparini.com

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