La «guerra del chip» minacciata da antiche ruggini

La corsa all’accaparramento minerario

Di Marco Nori, Ceo di Isolfin

Anche il controllo delle «Terre rare», i giacimenti ricchi di minerali utili allo sviluppo delle più moderne tecnologie, sta spostando gli equilibri mondiali verso una nuova pace armata fatta di blocchi contrapposti.   

Se oggi i paesi europei cercano di sganciarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili russi, dal petrolio e dal gas, questa partita riguarda direttamente le superpotenze che si contendono i mercati internazionali: Usa e Cina. La corsa all’accaparramento minerario sta prendendo il posto, sullo scacchiere geopolitico, delle stesse strategie energetiche.

Oggi la tigre asiatica controlla la grande maggioranza (si parla del 90%) dell’estrazione e della produzione di questi 17 metalli: Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio, Lutezio, Ittrio, Promezio e Scandio. Nomi desueti che si celano dietro a oggetti di importanza strategica, dagli F-35 ai missili, o di largo consumo, dagli smartphone alle automobili.

Gli Usa, invece, possono contare su una scarsa disponibilità di queste materie prime (l’80% delle importazioni arriva proprio dalla Cina), ma custodiscono il know how e la capacità produttiva per trasformare le Terre rare in semilavorati e prodotti finali, a partire dai chip. In altre parole, sulla stessa filiera produttiva convivono i due principali attori della globalizzazione. E ognuno, a modo suo, cerca la strada per smarcarsi dall’ingombrante partner. 

Non è un caso se Pechino ha da tempo messo gli occhi sulla Groenlandia o su alcuni stati centrafricani dalle economie traballanti ma con un ricco sottosuolo: interessano le concessioni minerarie. Ed è più semplice comprendere come la Cina non abbia mai nascosto le proprie mire sulla «provincia ribelle» di Taiwan, capitale asiatica del microchip: l’idea è quella di chiudere il cerchio per primeggiare nella corsa tecnologica. Nel frattempo, la Repubblica popolare apre e chiude i rubinetti all’export dei preziosi metalli, incidendo su prezzi e disponibilità.

Anche gli Usa stanno cercando di correre ai ripari e nelle scorse settimane è arrivato sulle scrivanie dei senatori a stelle e strisce un disegno di legge che ha lo scopo di limitare e inibire, a partire dal 2026, l’acquisto dei metalli raccolti nelle terre rare da parte delle aziende che producono sistemi di difesa dalla Cina.

Meno raro, ma altrettanto prezioso, è il silicio: semiconduttore alla base di qualsiasi circuito elettronico avanzato. Questa disputa si innesta sulla stessa narrazione: sono gli Usa a strozzare le forniture di chip in uscita dalla Silicon Valley per tirare la cinghia. Basta ricordare l’atteggiamento di Donald Trump nei confronti del colosso Huawei. L’intera industria automobilistica mondiale ha dovuto rallentare la produzione di fronte alle tensioni dello scorso anno.

La pandemia, come tutte le crisi, non ha fatto altro che accelerare il corso della storia e spingere in avanti gli orizzonti della tecnologia. Una rincorsa che, tuttavia, rischia di essere segnata dalle scorrettezze di chi è pronto a tutto pur di arrivare primo. Una guerra a bassa intensità ma ad alta tensione, alimentata dai vecchi rancori, che probabilmente non concederà spazio alla violenza dello scontro armato aperto, ma che ci consegnerà uno scenario fortemente contrassegnato da blocchi contrapposti e non necessariamente meno violento, almeno per gli stati-pedina. Un futuro fatto di tecnologia, chip e metalli preziosi minacciato, però, da antiche ruggini.

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