La memoria che manca ai secondos e non solo per un NO

La memoria, espressione tra le più controverse e sulle quali l’umanità si interroga da millenni, è divenuta un elemento importante per evitare il ripetersi di errori che provocherebbero danni inestimabili. Attenzione, non stiamo parlando, come facevano gli antichi, di trasmissione ai posteri delle gesta di qualcuno, bensì, di una tematica su cui gli scienziati sociali, in particolare i sociologi e gli storici, si interrogano da secoli. Cosa impariamo dal passato? Cosa il “noi”, inteso come collettività, ha imparato e ricorda del passato anche recente?

Più di vent’anni fa, il lavoro sulla memoria di Jan Assmann veniva tradotto in italiano (La memoria culturale, Einaudi 1997). Il testo pone l’accento sulla distanza necessaria da certi eventi affinché gli stessi possano essere rielaborati e ricostruiti in maniera collettiva. In altre parole, su una memoria collettiva, una memoria dei fatti ed eventi in cui tutti possano riconoscersi.

Questa sintetica premessa nasce da una constatazione preoccupante. Da quasi un decennio, in molte parti della Svizzera, si registra una crescente partecipazione dei cosiddetti secondos alle attività politiche, o in qualità di simpatizzanti, a partiti e movimenti svizzeri di un certo tipo. Sia chiaro, si è liberi di farlo, anzi, partecipare attivamente alle attività politiche del proprio nuovo Paese è una scelta degna di merito e apprezzamento. Tuttavia, quando questa partecipazione sfocia nello sposare tesi che portano alla cancellazione di decenni di battaglie portate avanti per il riconoscimento di diritti – spesso da parte dei nonni o genitori degli stessi secondos – la situazione diventa allarmante.

Da qualche mese – sul tema si è ampiamente scritto e dibattuto – abbiamo superato i 50 anni dalla famosa iniziativa Schwarzenbach. E volendo, negli ultimi anni, se prendiamo a modello quello dei 40 anni di Assmann, abbiamo ricordato le varie iniziative che hanno segnato gli anni Settanta, il decennio delle iniziative xenofobe.

D’altronde, già agli inizi degli anni Ottanta, assopitosi il precedente decennio di tensioni xenofobe, fu respinta Mitenand, la grande iniziativa pro-stranieri che avrebbe portato, ove accettata, all’abolizione del famigerato statuto stagionale. Così non andò, abbiamo dovuto attendere il 2002 con l’introduzione della libera circolazione, per vedere un cambiamento significativo di un processo, a dire il vero, già in atto.

Paradossalmente, nemmeno vent’anni dopo, sembriamo essere ripiombati indietro di 50 anni. Improvvisamente, ogni conquista faticosamente ottenuta rischia di essere spazzata via da un voto, quello del 27 settembre prossimo, che potrebbe cambiare la storia di molte italiane e italiani in questo paese. Certo, qualcuno potrebbe sottolineare come ormai l’italianità faccia pienamente parte del costrutto identitario della Confederazione e che, quindi, non ci sarà alcun problema. 

A dire il vero, l’italiano è lingua nazionale da sempre, eppure, la storia ci dice esattamente il contrario. Lo sappiamo, eccezion fatta per il Ticino, che rappresenta un unicum tra i più controversi della recente storia svizzera, da altre parti, il voto contro la libera circolazione non tocca, almeno nel percepito, la comunità italiana. Ricordiamo tutti cosa accadde nel febbraio del 2014. Il voto contro l’immigrazione di massa fu cavalcato contro i croati, che erano appena entrati a fare parte dell’Unione europea, eppure a essere decisivo fu il Ticino, che votò chiaramente contro la mobilità italiana. Per poi scoprire, qualche anno dopo, che ai tempi del Covid-19 non poteva fare a meno proprio di quei frontalieri impiegati soprattutto negli ospedali. 

Ancora una volta, la storia ci insegna che serve tempo per comprendere l’altro e affinché l’altro comprenda noi. Eppure, basterebbe rileggere il passato per capire che le chiusure non hanno mai generato ricchezza per nessuno, anzi è l’esatto contrario. Ma questo processo è lungo e tortuoso.

Lo capì già nel 1995 Hans-Joachim Hoffman-Novonty, quando a distanza di 25 anni – utilizzando gli stessi metodi di campionatura e la stessa modalità esplicativa –, replicò la sua indagine sulla percezione degli stranieri, condotta nel 1969. Il campione era composto da mille uomini svizzeri residenti nella città di Zurigo, diversi per età ed estrazione sociale. Le donne non furono interpellate, perché nel 1969 non avevano ancora ottenuto il diritto al voto. Dovettero attendere l’autunno del 1971 e in alcuni cantoni addirittura gli anni Ottanta.

I risultati fecero emergere chiaramente come, a distanza di un quarto di secolo, fosse cambiata in positivo la percezione nei confronti degli stranieri, nonostante questi ultimi fossero passati dal 17% del 1969 al 28% del 1995. I dati più significativi, in positivo, riguardarono gli italiani, che nello stesso periodo dal 45,5% erano scesi a poco più del venti alla metà degli anni Novanta. Le risposte variavano proporzionalmente rispetto al livello di formazione e alla condizione economica degli interpellati. Se nel 1969 quasi il 60% riteneva che la Svizzera fosse invasa dagli stranieri, un quarto di secolo dopo la percentuale era scesa al 38%. Nella sostanza, dalla comparazione emerse che la percezione nei confronti degli italiani migliorò al punto tale che alla metà degli anni Novanta le forme di razzismo e xenofobia nei loro confronti erano quasi incomprensibili. La distanza sociale tra svizzeri e italiani risultò pressoché annullata. Anche se, nel complesso, va detto che nei contesti rurali e più piccoli, meno aperti ad esempio alla mobilità internazionale, la situazione si modificò a velocità ben più contenute.

Tra le diverse domande poste, ce ne furono alcune di molto indicative, che fanno comprendere come cambiò la percezione nei confronti degli italiani. Ad esempio, se nel 1969 il 25,5% riteneva inopportuno avere come vicino di casa uno stagionale, nel 1995 ne era convinto meno del 2%; lo stesso dicasi per il disagio di lavorare insieme ad uno stagionale, che passò dal 10,5 all’1,2%. Infine, la domanda che fece registrare il maggior tasso di miglioramento fu quella relativa ai potenziali rapporti familiari: «Come la prenderebbe se sua figlia sposasse uno stagionale italiano?». Alla fine degli anni Sessanta ben il 56,3% riteneva questa un’ipotesi del tutto inopportuna, 25 anni dopo, la percentuale scese al 7,6%. 

Anche per quanto riguarda la cultura italiana e l’essere italiano, detto in termini attuali, l’Italian lifestyle, le trasformazioni furono significative. Nel 1969, alla domanda se gli italiani potessero essere un arricchimento per la cultura svizzera, solo poco più di un quarto rispose positivamente, mentre nel 1995 la percentuale salì all’88,3%. E ancora: «Per gli svizzeri sarebbe un danno acquisire qualche elemento legato alla mentalità italiana»? Se nel 1969 il 52,8% riteneva di no, un quarto di secolo dopo fu ben il 91,7% a sostenerlo.

L’altro, di qualsiasi nazionalità, per essere compreso e accettato va conosciuto e vissuto.

Senza entrare nel dettaglio, questi risultati dimostrano in maniera diretta e immediata una verità che generalmente è applicata a tutte le migrazioni, ieri come oggi: l’altro, di qualsiasi nazionalità, per essere compreso e accettato va conosciuto e vissuto. Purtroppo, solo il tempo è in grado di abbattere gli stereotipi. A volte gli eventi, tragici o gioiosi che siano, riescono ad abbreviarne la durata, ad imprimere accelerazioni che però sono sempre e comunque il frutto di lunghi processi di stratificazione e necessitano di una conoscenza reciproca.

In questo caso, nel nostro caso, ci limitiamo semplicemente a ricordare ai tanti secondos e “terzos” che la storia, se ha un senso nel suo fluire, lo conserva a maggior ragione nel determinare l’agire delle persone nel loro futuro prossimo. Buon voto a tutte e tutti. Buon NO!

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