La memoria per una Vita Nova

di Alessandro Sandrini

Celebrando anche quest’anno il giorno della memoria, non possiamo che augurarci nuovamente che questa ricorrenza non sia solo per piangere una tragedia, ma per spingere con ancora più forza la coscienza di tutti noi a vigilare e a illuminare la via verso un nuovo umanesimo.

Non si tratta solo di rievocare gli orrori della storia, bensì di rafforzare e spesso costruire una interiorità emozionale in noi e nei nostri figli. Ben vengano allora le letture, la visione di film, le testimonianze, inesauribile riserva di rassicuranti cose da poter fare nella scuola.

Tuttavia direi che non basta, se vogliamo che le rievocazioni non rimangano internate nelle aule o, di questi tempi, nell’annoiato sfavillio di un laptop. Ma come?

Forse cominciando a scardinare le porte chiuse della nostra memoria, aprirsi e riprendere le misure della nostra coscienza. 

Quest’anno ricorre il 700° della morte di Dante Alighieri. 

Dopo le iniziative del Dantedì dell’ottobre del 2019 e le ultime della primavera del 2020 (purtroppo penalizzate dal virus), condizioni sanitarie permettendo, vi saranno celebrazioni in tutta Italia, nelle scuole e negli atenei, negli istituti italiani di cultura all’estero che ne fanno un vanto in giro per il mondo. 

La Commedia è un pozzo senza fondo di storia, di cultura e visioni teologiche e filosofiche, di spunti poetici indimenticabili: Francesca, Farinata, Ulisse, Ugolino, Bonconte, Jacopo… personaggi esemplari che rimangono in chiunque ci sia venuto in contatto con un po’ di partecipazione emotiva.

Tuttavia, per non percorrere strade già calcate e spesso scontate, e riproporre celebrazioni che sanno tanto di piatti tipici da esportazione, sarebbe il caso di occuparsi anche di un altro Dante.

Sì, perché Dante è anche autore de La vita nova, uno straordinaria libro di formazione che purtroppo, per il cosiddetto grande pubblico, viene sovrastato dalla maestosità sinfonica della Commedia.

In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova.”

Così, facendo appello alla memoria, comincia questo stupefacente libro scritto tra il 1292 e il 1295, nel quale Dante narra il viaggio sentimentale e poetico iniziato nel 1274 e e terminato oltre la morte di Beatrice nel 1290. Questo viaggio comincia con il primo incontro all’età di 9 anni e si nutre di un “dolcissimo saluto” e un tenue sorriso che, uniti alla visione della donna, infiammano il cuore del giovane Dante in modo così dirompente da suscitare in lui felicità e amore. Ma la vicenda si complica: Dante, per nascondere l’identità di Beatrice, commette per ingenuità l’errore di fingersi innamorato di altre donne, e lei, venuta a conoscenza di questi altri amori di schermo, gli toglie il saluto gettandolo in un profondo sconforto. Sette anni più tardi Beatrice muore senza averlo più salutato. 

Questa sintesi illustra una fisiologica ed umanissima vicenda che anche molti di noi hanno vissuto e adesso forse vediamo nei turbamenti sentimentali dei nostri figli e dei nostri nipoti.

Non è il primo poeta che racconta i propri tormenti amorosi. Mi viene in mente il poeta latino Properzio (49 a. C. – 16 a. C.) che nella sua prima elegia così inizia: “Cinzia fu la prima che con i suoi occhi, mi prese innamorato perso, io che mai prima ero stato toccato dall’amore” (Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis, / contactum nullis ante cupidinibus.”).

Ma in Dante questo viaggio assume il valore di elevazione al cielo, con tutta la complessità simbolica dello stilnovismo che Dante, insieme a Guido Cavalcanti (il “primo amico”) ed altri amici stava sperimentando.

Non è il caso qui di fare dell’esegesi filologica, come insegnava il mio maestro Domenico De Robertis, né di ripassare la lezioncina sulla figura della “donna angelicata”, cara a tante professoresse di liceo. 

È invece da sottolineare come tutta la Vita nova sia un continuo scavare in se stessi, una continua ricerca della lingua, di immagini per poter dire, in prosa prima e poi versi, quelle ineffabili emozioni, forse solo giovanili, ma che scardinano il cuore quando si cerca fissare ogni riflesso emozionale e dipanare ogni filo della nostra coscienza.

Basterebbe leggere l’ultima terzina (senza analisi né versione in prosa, per carità!) del sonetto XXI “Ne li occhi porta la mia donna Amore

Quel ch’ella par quando un poco sorride,
non si pò dicer né tenere a mente,
sì è novo miracolo e gentile.

Dobbiamo immaginare Dante poco più che adolescente che, dopo aver ricevuto un leggero sorriso da Beatrice, torna a casa e cerca di “dicer” e “tenere a mente” quel che sentiva.

È questa una palestra dell’anima, dove la coscienza non solo prende le misure del mondo, ma impara a cercare nella memoria le ragioni delle proprie emozioni.

La lezione di Dante è anche questa, soprattutto questa se, dopo averlo celebrato da morto, vogliamo onorarlo come vivo.

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