L’intervista ad Andrea Pozzetta, direttore scientifico della Casa della Resistenza di Verbania, associazione che vuole trasmettere – in particolare ai giovani – la memoria collettiva legata alla lotta per la Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazi-fascista
di Cristina Penco
La Val d’Ossola, sulle rive del Lago Maggiore, in Piemonte, è un fazzoletto di terra vicino al confine con la Svizzera. Forse non tutti sanno che in questa zona di quasi duemila chilometri quadrati, nel 1944, è stata fondata una piccola repubblica partigiana: uno Stato utopico di breve durata – con un proprio governo, un proprio esercito e una propria capitale, Domodossola – che ha rappresentato un esperimento democratico sorprendente agli occhi di tutto il mondo, poiché attuato all’interno di un Paese in guerra, ancora formalmente sotto un regime monarchico.
Una stella polare, che ha brillato solo per una quarantina di giorni, sufficienti, però, a riaccendere la speranza collettiva in un periodo buio e desolato.
Nata nel settembre del ’44, la Repubblica dell’Ossola è caduta poi poco dopo, all’inizio di ottobre, sotto le offensive e i colpi nemici. Temendo violenze e rappresaglie, in quei giorni le formazioni partigiane del territorio, in collaborazione con le autorità elvetiche, hanno organizzato una grande operazione umanitaria per salvare compagni e civili (tra cui molti bambini) facendoli arrivare nella Confederazione elvetica.
Abbiamo ripercorso quei passaggi cruciali per entrambi i Paesi con Andrea Pozzetta, direttore scientifico della Casa della Resistenza di Verbania (VB). L’associazione è impegnata a svolgere attività di ricerca e divulgazione per trasmettere – in particolare alle giovani generazioni – la memoria collettiva legata alla lotta per la Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazi-fascista e ai suoi ideali, valorizzando il patrimonio documentario e monumentale e promuovendo lo scambio culturale.
Quanto è stata importante la Svizzera per i partigiani del Nord Italia?
“La Svizzera è stata un elemento fondamentale. Soprattutto nella zona dell’Ossola e del Verbano, la Resistenza si è sviluppata anche grazie al fatto che erano aree di confine con la Confederazione elvetica. Le prime formazioni partigiane che si sono costituite sul Lago Maggiore nell’autunno del 1943 avevano l’obiettivo precipuo di accompagnare nella Confederazione federale i perseguitati politici e razziali e le centinaia, se non migliaia, di ex prigionieri alleati che erano stati liberati dai campi fascisti dopo l’8 settembre del 1943”.
Cos’è successo dopo, quando la Resistenza è diventata una lotta armata contro gli occupanti tedeschi e la Repubblica sociale italiana, ultima coda del regime fascista prima del crollo definitivo?
“I Cantoni elvetici hanno continuato a svolgere un ruolo determinante, innanzitutto perché in Svizzera c’erano i punti di riferimento del Comitato Liberazione Nazionale (CNL) dell’Alta Italia. Il CNL, a Lugano, aveva una propria delegazione che in qualche modo sovrintendeva al lavoro organizzativo delle formazioni partigiane nelle zone di confine, a settentrione. Sempre in Svizzera rimanevano le centrali operative degli alleati, che permettevano di ottenere aiuti militari e altri rifornimenti. Molti comandanti partigiani, organizzatori e staffette dovevano costantemente viaggiare tra l’Italia e la Confederazione per scambiare informazioni e materiali. Quando è caduta la Repubblica partigiana dell’Ossola, tanti partigiani non sono finiti nelle reti del rastrellamento nazifascista perché hanno avuto la possibilità di entrare in Svizzera ed essere accolti nei campi di internamento, predisposti per loro in accordo con il CNL e gli anglo-americani”.
E per quanto riguarda la popolazione civile?
“I civili ossolani, ritrovandosi completamente isolati per gli approvvigionamenti alimentari e di altro genere dalle zone controllate dai mezzi fascisti, avevano come unico appoggio proprio la Svizzera. Era solo da lì, infatti, che arrivavano cibo e medicinali. Quando c’è stato il grande rastrellamento fascista, nell’ottobre del 1944, i civili, che in gran parte si erano “compromessi” partecipando alla Resistenza e aiutando le organizzazioni della Repubblica Partigiana dell’Ossola, hanno cercato rifugio in Svizzera e sono stati accolti dalle organizzazioni umanitarie elvetiche, in primis dalla Croce Rossa Svizzera”.
Lei ha dedicato un libro alla figura di Ettore Tibaldi, presidente della giunta provvisoria di governo della Repubblica dell’Ossola. Un volume che ha anche ottenuto il premio “Repubblica Partigiana dell’Ossola” 2021. Chi era Tibaldi? Ha avuto legami con la Svizzera?
“Ettore Tibaldi è stato il principale organizzatore della Resistenza dell’antifascismo in Ossola. Originario della provincia di Pavia, era un medico, un ricercatore e un docente universitario. A metà degli anni Venti era stato licenziato per le sue idee antifasciste. In seguito si è ritrovato catapultato in un ospedale militare civile a Domodossola, l’unico luogo in cui aveva trovato un’occupazione, ma lontano dall’università e dalla famiglia. Ha vissuto ben due esili oltreconfine: una prima volta tra il dicembre del 1943 e il gennaio 1944, in seguito a un’insurrezione partigiana, e successivamente dopo la caduta della Repubblica Partigiana, nell’ottobre del 1944. Per Tibaldi il doppio esilio elvetico è stato molto formativo, anche dal punto di vista politico. Dopo decenni di una politica antifascista vissuta in clandestinità, per la prima volta in Svizzera Ettore ha potuto incontrare esponenti politici che avevano libertà di parola e libertà di stampa. Ha avuto modo, dopo tanto, di leggere, informarsi, discutere. Proprio quando era in Svizzera, tra l’altro, Tibaldi è rientrato nel Partito Socialista Italiano, da cui era uscito molti anni prima”.
Nel caso degli ebrei perseguitati, però, la frontiera elvetica si è aperta un po’ tardivamente. Come mai?
“Sì. All’inizio sono stati attuati vari respingimenti sulla base di motivazioni burocratiche. In principio non esisteva la categoria del “perseguitato razziale” e quindi veniva accolto chi rientrava in altri gruppi riconosciuti. Tante persone, purtroppo, sono state respinte. Inoltre, in quel momento, si prestava attenzione a non pregiudicare gli equilibri politici con i vicini Paesi dell’Asse. La situazione, però, è cambiata quando, dopo l’autunno del 1943 e l’inverno del 1944, è diventato palese che Italia e Germania sarebbero uscite sconfitte dal conflitto. In parallelo, come hanno rilevato gli storici, sono state decisamente importanti le pressioni esercitate dall’opinione pubblica svizzera: il mondo dell’associazionismo, i sindacati, vari movimenti e partiti nonché l’ambito cattolico hanno lavorato tanto a favore di una politica più netta di accoglienza rivolta a tutti, senza distinzioni razziali. E così il territorio elvetico è diventato ancor più un luogo di asilo e rifugio, quantomeno in via temporanea”.
Qual è, dal suo punto di vista, la lezione più significativa che, ancora oggi, in un mondo dai fragili equilibri geopolitici, ci consegna la Repubblica dell’Ossola?
“Un aspetto fondamentale è stato il rispetto della dignità dell’essere umano. In un contesto come quello dell’Italia durante la guerra e sotto l’occupazione nazifascista, in cui una persona poteva essere uccisa su due piedi e senza motivo – spesso solo per un atto di terrorismo politico – quello che invece si è fatto durante la Repubblica Partigiana dell’Ossola è stato cercare di ribaltare completamente tutto ciò, eliminando ogni possibile principio vendicativo e applicando la dignità della persona umana anche verso i nemici. Trovo che in questo possa avere influito molto lo stesso esempio della Svizzera, che in quegli anni ha aperto le braccia a numerosi fuggiaschi perseguitati”.